Bianchina, tutt’altro che sfigata: l’auto di Fantozzi era nata chic

Fu pensata come versione superiore della Fiat 500, accessibile solo ai benestanti. I film la resero ancora più celebre, ma stravolsero la narrazione

Fantozzi all'opera con la sua Bianchina
Fantozzi all'opera con la sua Bianchina

Ferruccio Quintavalle sfoglia i bilanci con aria perplessa. Non è scontento, anzi. Quando finisce di esaminare gli incartamenti la visione è assolutamente nitida: l’azienda Bianchi è diventata ormai troppo grande per limitarsi al business delle due ruote. Tocca aggiungerne un paio, per strizzare l’occhio a questo inedito e glorioso perimetro in espansione. Cosparso davanti alla sua scrivania, uno stuolo di ragionieri: Ferruccio non sa – come potrebbe del resto – che sarà proprio quella categoria a fare ascendere verticalmente il marchio, pur intridendolo dell’ignominia di cui resta imbevuta la sfiga.

Mettiamo ordine. Nel dopoguerra la Cicli Bianchi è una corazzata. I conti non solo tornano: sono astronomici. Per questo Quintavalle fa una cosa: alza la cornetta e compone tre numeri diversi. Il primo è quello del commendator Giuseppe Bianchi. Quello che sta in mezzo è Alberto Pirelli, figlio del fondatore dell’omonima azienda. In coda, ma mica meno importante, un giovane Gianni Agnelli. Il quartetto sigla un patto d’acciaio: l’11 gennaio 1955, a Desio, sorge l’Autobianchi.

Bianchina

La Bianchina è la prima nascitura: irrompe sul mercato italiano cogliendo un successo formidabile. Seduce con quelle pinne posteriori, abbaglia con le cromature, guizza lesta come la 500 – con cui condivide anche il telaio - grazie al motore che spinge dal retro. E poi l’abitabilità è migliore, il design appare chic, i dettagli più curati. Se la vuoi in un’unica soluzione devi tirare fuori 565mila lire, cifra che disegna un lieve gap con la vettura che l’ha preceduta, inchiodata alle 490mila. Ad ammaliare però è anche l’opzione – ammiccante – di poterla mettere in garage con un pacchetto di 30 rate.

Vendite che esplodono, sfumature che si moltiplicano di conseguenza. Nel ’59 vengono presentate la versione Cabriolet e la Panoramica: la prima possiede un motore da 499 centimetri cubi e 21 cavalli. La seconda di cavalli ne ha 22 e vanta maggiore spazio posteriore. Nello stesso anno viene sfoderata anche la “Trasformabile”, prodotta anche in una versione Special che poi significa livrea bicolore e si va in giro a far ruotare le teste.

È chiaro a tutti, fin dal primo istante, come la Bianchina debba rappresentare la vettura di una certa facoltosa borghesia o, al massimo, la seconda agile auto della upper class. Così, quando compare per la prima volta in una pellicola di Fantozzi, il risultato è prodigioso in termini di marketing, ma straziante per il brand. Perché, d’un tratto, un’auto nata per aggiungere una patina di lusso a cumuli di italiche esistenza cupe, diventa propaggine – accidenti che sberleffo – del ragioniere più sfigato di sempre.

Lui guida, peraltro, il modello meno apprezzato di tutti. La Berlina, uscita nel 1962 e subito ribattezzata “Televisore”, per via di quella forma verticale del lunotto posteriore. La saga fantozziana – dipanandosi dal 1975 (sei anni dopo la chiusura della produzione) al 1999 – infligge un severo colpo di grazia ad una vettura uscita male, stavolta sì, e finita peggio.

Costantemente bagnata dalla nuvoletta che perseguita il nostro, arenata in poltigliose pozzanghere, sfregiata da prepotenti parcheggiatori e persino bardata come un novello carro armato: la Bianchina viene maneggiata nei film con allegra disinvoltura, diventando a tutti gli effetti un tempo comico. Il messaggio originale però risulta stravolto: è anche peggio del classico “va tutto bene purché se ne parli”. Il bistrattamento viene sublimato da una congerie di terribili disavventure. Prima vengono le ammaccature fisiche: Fantozzi ci fa un frontale contro un palo, ma pare il meno. Durante i festeggiamenti di un capodanno una lavatrice lanciata dall'altro la centra irrimediabilmente. Un'altra volta ancora, mentre il ragioniere è intento a sorbirsi tonnellate di straordinari imposti dal Megadirettore Galattico, un manipolo di scherzosi colleghi la usa come autoscontro. E che dire dei dilemmi del cuore? Il nostro pensa che possa essere un grimaldello per raggiungere quello della idolatrata Signora Silvani, ma si sbaglia di molto. Lei, infatti, la definisce senza ampollosi giri di parole come "una baracca". Strumento spuntato di un amore impossibile, la Bianchina pagherà dazio anche durante l'improvvisata fuga a Capri con la donna eletta a musa dal ragioniere: viene avviluppata, ingloriosamente, dai flutti marini.

Male, per non dire malissimo, se si pensa che la vettura - specie nella sua versione cabrio - veniva vissuta dai benestanti come una sorta di agevole Cadillac: al suo volante si misero anche Grace di Monaco e Onassis, per dire.

Le avventure di Paolo Villaggio tuttavia la fanno sprofondare, grattando via quella veniciatura glamour ed eleggendola per inevitabile equazione catodica ad auto di fiducia dei perseguitati dalla malasorte.

Una fine certo ingloriosa per un marchio sorto con tutt’altre premesse, ma in fondo basta scavare di una spanna per srotolare un’altra storia. Ha recitato una parte, ma era tutt’altro che sfigata.

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