Il violoncellista Mario Brunello è stato il primo europeo a portarsi a casa - nel 1986 - la medaglia d'oro del concorso Cajkovskij di Mosca. Nell'Urss della perestrojka e della glasnost, di scioglimenti e collassi imminenti, quel giovanotto di Treviso sparigliò le sovietiche carte. E tale è rimasta la stoffa di Brunello, che è sperimentatore, controcorrente, solista, direttore, docente (alla Royal Academy di Londra), ma pure imprenditore musicale che s'inventa luoghi di consumo culturale come il capannone Antiruggine, che riforma vecchi festival come quello di Stresa (partito il 17 agosto) e i Suoni delle Dolomiti (dal 28 agosto). Tesse programmi dove combina monumenti secolari, il prediletto Bach, con compositori negletti, accadrà con i recital di settembre all'Isola d'Elba dove da ormai tre decenni prospera un festival che aprirà accogliendo quel miracolo vivente che è Martha Argerich (30 agosto). Tanto fermento, bei nomi, gran spolvero. Ma gli affari della musica classica e in particolare da camera, quella pensata per pochi strumenti e piccoli spazi, non è che vadano poi così bene: è ormai un'impresa riempire le sale. Ne parliamo con Mario Brunello: «È una storia che sta finendo, dobbiamo esserne consapevoli. Cerchiamo di salvare il salvabile e fare in modo che la musica continui a operare almeno negli ambienti per i quali era stata pensata, senza la pretesa di portarla sotto i riflettori forzandola a un ruolo che non ha più».
Quale è stato il suo ruolo?
«Mettere insieme le persone per qualche sera creando relazioni sociali. Oggi queste occasioni sono innumerevoli, alla portata di un click. Va però detto che con la sinfonica le cose vanno meglio».
E con la lirica ancor di più
«La lirica ha le spalle forti, i libretti raccontano storie tutto sommato attuali. La musica da camera esige un ascolto diverso, riflessioni e discussioni che nel frattempo si sono spostate sullo schermo. Ha bisogno di tempo, che in tanti preferiscono destinare a surfate sul web. È una storia che sta svanendo».
Una storia di capolavori, di Gioconde. Come può estinguersi?
«È musica meravigliosa, e l'abbiamo sfruttata economicamente, ma è un capitolo che si sta chiudendo. Il suo valore è inscalfibile, però sempre meno persone lo sanno cogliere. Non devono quindi spaventarci le piccole platee. Solo il grande evento attira il grande pubblico. Io stesso preferisco suonare in una sala da 50 persone dove ne vedo stipate 60 piuttosto che in un auditorium semivuoto».
Sulla base di questa verità, lei continua a organizzare.
«Lavorando anche a soluzioni alternative. Possiamo fare musica in qualsiasi posto, pure in un magazzino, a Stresa facciamo concerti anche nel polo logistico di Herno per esempio. Così come per i Suoni delle Dolomiti portiamo la musica in spalla in cima alla montagna».
Che ne è dell'Antiruggine?
«Ci siamo fermati dopo 12 anni e 334 serate, pensavo di aver chiuso un arco di esperienze. Ma ripartiremo entro l'anno».
Con che criteri sceglie gli artisti quando prepara un cartellone?
«Premesso che abbiamo giovani formidabili, è opportuno che sappiano anche usare la propria immagine attraverso la rete».
A Stresa suona il giovane Trio Chagall, rientra in quel 3,5% di Italiani ammessi all'Academy e Festival di Verbier. Così pochi Italiani alla Harvard della musica: perché?
«Premesso che il Trio Chagall è composto da ragazzi che potrebbero essere di qualsiasi nazionalità tanto sono straordinari, è questione di pianeti che si allineano. Oltralpe si è sempre guardato con diffidenza alla scuola italiana, e la scuola italiana ha avuto timore di presentarsi a certe realtà musicali. Spesso ho visto un atteggiamento di apartheid verso i Paesi latini».
Resta poi il fatto che i nostri talenti faticano più dei coetanei tedeschi, americani o inglesi a sfondare.
«E questo nonostante il valore; insegno a Londra, alla Royal Academy,
eppure lì non ho ancora incontrato talenti come il nostro Ettore Pagano, ma potrei fare altri esempi. Però non abbiamo le agenzie internazionali potenti, che ti prendono sotto l'ala, curano l'immagine e la comunicazione».
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