Ciò che fu Simonetta Vespucci per il pittore Sandro Botticelli, o Camille Claudel per lo scultore Auguste Rodin (prima) e per il compositore Claude Debussy (poi), o ancora il soprano Aloysia Weber per Mozart. Pattie Boyd è questo, è una donna fatta della stessa materia dei sogni. Una musa ispiratrice, nel più puro senso del termine. Se si pensa che a lei sono state dedicate canzoni immortali come Something, I Need You e If I Needed Someone scritte da George Harrison per i Beatles, oltre a Layla e Wonderful Tonight di Eric Clapton, se si pensa che due rockstar di questo calibro se la sono contesa mettendo a rischio una grande amicizia (sposandosela a turno), se si scopre infine che fu lei la responsabile dell’infatuazione “indiana” dei Beatles e del loro ritiro spirituale in India alla corte del Maharishi Mahesh Yogi nel 1968, è facile capire come negli occhi limpidi di questa donna di 78 anni, originaria di Taunton (contea di Somerset), ex modella di successo nel cuore degli anni Sessanta, dea della Swingin’ London, passi una bella fetta della più grande stagione del rock. E di un’Inghilterra che, in quell’epoca, si prendeva la ribalta del mondo. Oggi Pattie Boyd è a Milano, per presentare il suo libro fotografico Pattie Boyd – My Life In Pictures (Reel Art Press, £39,95), disponibile in Italia dal 1° dicembre, e incontrerà il pubblico (ore 17) come special guest della festa BeatlesMi (mostra di memorabilia, rarità, concerti a cura di Riccardo Russino e Davide Verazzani) al Mosso di via Mosso, all’interno del fitto cartellone della Milano Music Week.
Ms Boyd, come vive il suo eterno rapporto con la storia dei Beatles: un privilegio o una sorta di condanna?
«Come un semplice dato di fatto, qualcosa che è venuto dal destino. Li incontrai davvero per caso, e finii per sposare George».
Come avvenne questo incontro? La leggenda dice che George si innamorò all’istante.
«Non è una leggenda. Ero appena giunta sul set del film dei Beatles A Hard Day’s Night. George ci mise poco a chiedermi di sposarlo, alla fine della giornata di riprese, nelle quali tra l’altro dovevo recitare una sola battuta. Non ci feci caso, pensavo scherzasse».
E poi?
«Poi me lo richiese dopo poco tempo e dissi di no. Ero fidanzata. In ogni caso iniziammo a frequentarci e dopo qualche mese, eravamo nel 1965, George mi chiese ancora di sposarlo. Evidentemente non scherzava».
E dire che lei doveva essere una meteora nella storia dei Beatles.
«Conoscevo il regista Richard Lester: avevo girato con lui alcune pubblicità per la tv. Mi chiese di venire a fare un provino per un film dei Beatles, e la cosa mi lasciò di stucco. La mia unica aspirazione era fare la modella. Non ho mai pensato di fare l’attrice».
Il suo libro è fitto di immagini suggestive: lei fu una star tra le modelle inglesi negli anni Sessanta: ritratta sulle copertine di “Vogue”, perfino citata nelle vignette di Andy Capp come la ragazza perfetta per vestire la minigonna. Se dovesse definire con una parola quell’epoca, quale userebbe?
«Libertà. Assoluta. In tutto l’universo artistico fu così: pittori, scrittori, musicisti, registi, designer, fotografi. Ci si prendeva le libertà, si osava».
Tutto questo nell’Inghilterra simbolo del conservatorismo e della tradizione.
«Esattamente. Non penso che si possa definire esagerata la parola rivoluzione. Oggi le cose vanno diversamente».
Vale a dire?
«La gente sembra non sopportare più la libertà, si abbandona all’intolleranza. E, in fondo, questa libertà sembrano non volerla più. Ne hanno paura».
Due divinità del rock come George Harrison e Eric Calpton hanno dedicato a lei canzoni capolavoro. È chiaro che la semplice bellezza non spiega tutto.
«Tutto questo resta un mistero. O piuttosto è un segreto che non voglio svelare. In realtà non posso saperlo. Certamente non ho usato incantesimi o formule alchemiche. Si torna al destino, e al fatto che non possiamo controllarlo».
In realtà lei seppe stimolare questi artisti anche culturalmente: la storia dice che a lei si debba l’infatuazione per l’India dei Beatles.
«La verità è questa: Paul fu il primo a sapere che il Maharishi era a Londra. Nello stesso tempo George sapeva che io stavo studiando meditazione trascendentale. Fu una combinazione. E ci ritrovammo in India».
Cosa ricorda di quei giorni?
«Una grande armonia tra i quattro Beatles. Due mesi laggiù ai piedi dell’Himalaya, a meditare, scherzare, a scrivere canzoni senza alcuna pressione».
Lei fu letteralmente contesa tra George Harrison e Eric Clapton: cosa portò alla fine del matrimonio con George?
«Qualche volta nella vita le relazioni giungono a una fine naturale, avevamo preso due strade diverse. Quando finii tra le braccia di Eric, George non sembrava troppo dispiaciuto. Lui è sempre stato chiuso. Chissà forse era meglio, ai suoi occhi, che mi mettessi insieme a un bravo chitarrista piuttosto che a uno scarso».
Due artisti molto sensibili, ma anche due uomini complicati.
«Sì, i tradimenti di George, la dipendenza da alcol di Eric. Ho attraversato quella tristezza con molto coraggio. La cosa più dura fu non essere ascoltata da Eric. Chi ha delle dipendenze ascolta solo sé stesso».
Rifarebbe tutto ciò che ha
fatto nella sua vita? «Sì, assolutamente. Se non avessi fatto quelle scelte mi sarei privata di tante esperienze che mi hanno formato come persona. Sono passata anche attraverso la sofferenza, ma ne è valsa la pena».
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