Nascita e morte della lotta armata nel romanzo delle Brigate Rosse

Bertante racconta il nucleo storico dei terroristi attraverso gli occhi di un ragazzo che capisce: nessuno vuole la rivoluzione

Nascita e morte della lotta armata nel romanzo delle Brigate Rosse

Mordi e fuggi (Baldini + Castoldi, pagg. 206, euro 17; in uscita il 20 gennaio) di Alessandro Bertante è un affilato romanzo sulla nascita delle Brigate Rosse. L'autore conosce l'argomento. Bertante si è laureato con una tesi su Re Nudo, la rivista della sinistra extraparlamentare che pubblicò per prima i volantini delle Br. Relatore: lo storico Giorgio Galli. Le sue conoscenze sono al servizio di una storia tanto significativa quanto a presa rapida. Mordi e fuggi vale anche come descrizione dello stile di Bertante, se azzannate le prime pagine, vorrete velocemente sapere come andranno a finire le vicende di Alberto, il protagonista; e l'autore, con bravura, vi accontenterà.

Ecco, chi è Alberto? Lo chiediamo proprio a Bertante: «È uno dei due fondatori delle Brigate Rosse mai identificati. Sappiamo che agirono sul campo, ad esempio nelle rapine che i terroristi utilizzavano come forma di finanziamento. Renato Curcio e gli altri membri storici, quando furono arrestati, si rifiutarono di fare i loro nomi».

Alberto è in rotta con la famiglia borghese ma anche col movimento studentesco al quale appartiene. Le lotte degli anni Sessanta non hanno condotto a nulla. Nonostante gli slogan e le prediche sfiancanti, gli studenti sono borghesi compiaciuti. Non faranno nulla se non parlare. Alberto, invece, vuole sentirsi in grado di cambiare qualcosa. Il comunismo promette un futuro radioso a patto di fare la rivoluzione. Il problema è la mancanza di un solido legame con i lavoratori, in particolare gli operai delle grandi città. Le Brigate Rosse sono il gruppo che con maggiore forza cerca il consenso nelle fabbriche soprattutto di Milano. Mordi e fuggi è un romanzo milanese quasi al cento per cento, e non è questione di strade nebbiose e altri cliché. Bertante ci fa vedere i cancelli della Sit-Siemens, lo spaccio dell'Alemagna, la zona africana tra Corso Buenos Aires e i viali che conducono alla Stazione, il quartiere di Porta Romana quando in via Orti, al posto di premi Nobel e conduttori televisivi, c'erano le osterie della leggera, come veniva chiamata la piccola criminalità.

Alberto passa da un gruppo all'altro. Decisivo è l'ingresso nel Collettivo Politico Metropolitano, dal quale nasce Sinistra Proletaria e con quest'ultima siamo ormai a un passo dalle Brigate Rosse. La svolta è la bomba di Piazza Fontana, esplosa il 12 dicembre 1969 a Milano, nella Banca nazionale dell'agricoltura. Di fronte ai diciassette morti, e ai novanta feriti, Alberto, e altri come lui, rompono gli indugi. Chiediamo conferma a Bertante: «La frustrazione politica dopo Piazza Fontana, specie a Milano, è un incredibile catalizzatore». Cresce la paranoia del golpe e della reazione. Bertante precisa: «Bisogna tenere conto che la teoria della strage di Stato non è una lettura a posteriori. Era l'interpretazione coeva all'attentato. Le prime indagini che misero nel mirino gli anarchici rafforzarono la convinzione che fosse iniziata la repressione».

Le Brigate Rosse nascono nell'agosto del 1970 a Costaferrata, un piccolo paese sui colli di Reggio Emilia. Organizzatore del convegno è Alberto Franceschini detto il Mega, figlio e nipote di partigiani, capace di procurarsi con facilità le armi nascoste alla fine della Seconda guerra mondiale. Sono presenti Renato Curcio e sua moglie Margherita Cogol detta Mara. Curcio e Mara sono credenti. Non avvertono contrasto tra gli ideali comunisti e il cristianesimo. Si parla di entrare in clandestinità e si formano, anzi sono già formate, le prime cellule oltre alla milanese: Genova, Borgomanero, e poi i romani, i lodigiani e i torinesi. La strategia prevede azioni dimostrative nelle fabbriche non solo per fare propaganda ma anche per reclutare. Chiediamo ancora a Bertante come andarono le cose: «Erano veramente quasi tutti operai, a parte Curcio e Mara, oppure avevano alle spalle una situazione disagiata. Moretti veniva dalla fabbrica anche se era un colletto bianco alla Siemens. La dimensione operaia delle Brigate Rosse, a lungo negata dal Pci era una realtà».

Alberto rompe con gli amici che non vogliono impugnare le armi, lo fa in modo violento, in modo «fascista» come dice Ivan, una delle sue vittime. Nel neo-terrorista la lotta politica conta tanto quanto il lato torbido e avventuroso della vita. C'è qualcosa in Alberto che rimanda, più che ai partigiani, all'esteta armato di ogni epoca, stringere in pugno un'arma dà una fantastica sensazione di potere ed ebbrezza. La sconfitta, per quanto la battaglia sia priva di speranza e addirittura stolida, «rimane scolpita nella memoria del mondo». Puro romanticismo applicato alla violenza.

Dopo alcuni gesti dimostrativi alla Pirelli e in altre fabbriche, le Brigate Rosse iniziano a colpire i dirigenti. Si comincia con Giuseppe Leoni, dirigente della Sit-Siemens, al quale viene bruciata la macchina. Nei bagni della fabbrica compare il primo volantino firmato ancora «Brigata rossa» al singolare (dal successivo si passa al plurale). La fama delle Brigate Rosse, nel mondo della sinistra extra-parlamentare, è in forte crescita. Il compagno Osvaldo, vale a dire Giangiacomo Feltrinelli, entra nella loro orbita. Poi ci sono altre organizzazioni come Lotta Continua e Potere Operaio che oscillano tra la collaborazione e le accuse alle Br di essere più o meno consapevoli strumenti della reazione. Dalle dimostrazioni si passa ai rapimenti, dai rapimenti alle rapine, dalle rapine a... In realtà la storia di Alberto finisce prima che la lotta armata passi alla gambizzazione o all'omicidio. Alberto sfugge alla prima retata che di fatto decapita il movimento, specie a Milano.

E come finisce, chiediamo a Bertante: «Capisce che non ci sono i presupposti di una rivoluzione. Non c'è un noi contro loro. La lotta armata è una scelta di minoranza». Non si pente: «No. Alberto non avrebbe, credo, appoggiato la svolta militaristica delle Brigate Rosse ma neppure era contrario all'uso della violenza. Tra l'altro, per un certo periodo, quello raccontato in Mordi e fuggi, le Brigate Rosse non furono il gruppo più violento. Non furono i brigatisti a uccidere il commissario Calabresi, per citare un evento tragico e fortemente simbolico».

Come Pier Paolo Pasolini, da sinistra, fece tabula rasa del Movimento studentesco, accusandolo di aver favorito l'omologazione, così Leonardo Sciascia, ripartendo proprio da Pasolini, farà notare l'inconcludenza della strategia brigatista: rapito Moro, Democrazia cristiana e Partito comunista avranno una ragione in più per avvicinarsi. Sciascia si chiederà0 se l'esperienza brigatista non appartenga alla «sfera dell'estetismo in cui il morire per la rivoluzione è diventato un morire con la rivoluzione».

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