Messina Denaro e la vita del mafioso

"Se vuoi nascondere bene qualcosa, ti occorre metterla sotto gli occhi di tutti"

Messina Denaro e la vita del mafioso
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Egregio Direttore Feltri,
non le sembra strano che il boss Matteo Messina Denaro sia stato arrestato soltanto pochi mesi prima di morire? Perché ci abbiamo messo tanto per catturarlo e lo abbiamo preso solo quando ormai era malato e prossimo alla fine? Ho il sospetto che il mafioso abbia goduto di protezioni ad altissimo livello e forse non dovrei dire una cosa del genere, ma so che non sono l'unico a crederlo, altrimenti non si spiega come non abbiamo fatto a trovarlo prima. Era ricercato in tutto il mondo, eppure ce lo avevamo sotto il naso.
Luca Manfredi

Caro Luca, sai cosa si dice? «Se vuoi nascondere bene qualcosa, ti occorre metterla sotto gli occhi di tutti». E forse questo suggerimento bene si applica alla vicenda di Matteo Messina Denaro. Non lo abbiamo trovato prima proprio perché era lì dove nessuno mai si sarebbe aspettato che fosse, ossia a due passi da casa sua, nei luoghi dove è nato e cresciuto, nella sua terra madre, a cui i mafiosi sono particolarmente legati, tanto che difficilmente questi si allontanano dal territorio in cui è radicato il clan, o la cosca, o la famiglia, o l'associazione criminale, chiamala pure come ti pare. Immaginavamo Denaro all'estero, in America Latina, a trastullarsi tra donne e bei vestiti e alberghi e ristoranti di lusso, o in Francia, o in Spagna, o in Svezia, sempre alle prese con la dolce vita, di cui si è affermato che fosse appassionato. Invece il superlatitante viveva in un locale spartano, una sorta di topaia, certamente pulito e dignitoso, ma modesto rispetto a quanto ciascuno di noi avrebbe creduto. Il gusto per il bello e la passione per il lusso sono stati traditi da pochi elementi individuati in quei luoghi da cui si ipotizzava che Matteo Messina Denaro fosse passato: un foulard di Hermes, i resti di caviale in frigo... Quest'uomo era un mistero prima ed è un mistero ancora oggi. Come enigmatica, in effetti, è la faccenda della sua latitanza, quindi è naturale che essa susciti domande, dubbi, sospetti, stimolando le menti dei complottisti, che qualche volta ci azzeccano. Del resto, che il boss abbia goduto di protezione è un fatto certo, ci sono tuttora indagini in corso per comprendere chi, per trent'anni, lo abbia tutelato, chi lo abbia supportato, chi gli abbia fornito i documenti falsi per viaggiare, spostarsi, essere ricoverato qui e anche lì.

Devo ammettere che il trapasso del presunto capo di Cosa Nostra, uomo spietato accusato e condannato di essere autore di crimini orrendi nonché di stragi di mafia, non mi induce a pormi quesiti simili a quelli che tu hai sollevato, bensì mi induce a riflettere sulla amara condizione del mafioso. Bisognerebbe ricordare ai ragazzi che intraprendere la strada del crimine, per quanto possa ingolosire e sedurre all'inizio, in vista della promessa di lauti guadagni e di un potere effimero derivante dall'uso della violenza e dall'appartenenza, ovvero dall'adesione, alla cosca, non è mai conveniente, bensì equivale ad un'autocondanna alla disperazione, alla solitudine, alla fuga perpetua, alla galera e alla morte prematura. Non riesco ad immaginare una esistenza più tragica di quella condotta da un mafioso. Tragica come è stata quella di Matteo Messina Denaro, che si è spento a 62 anni, neppure vecchio, dopo decenni passati a nascondersi come uno scarafaggio. Se si perde la libertà, la possibilità di vivere alla luce del sole, a cosa serve più la vita?

Fu Giovanni Falcone, per primo, a compiere questo genere di osservazione. Nel libro-intervista Cose di Cosa Nostra, scritto con Marcella Padovani, il magistrato esprime quasi pietà nei confronti dei cosiddetti «uomini d'onore». A proposito di questi: «Il catechismo non scritto dei mafiosi suggerisce qualcosa di analogo: il rischio costante della morte, lo scarso valore attribuito alla vita altrui, ma anche alla propria, li costringono a vivere in uno stato di perenne allerta... Quando si vive come loro in attesa del peggio si è costretti a raccogliere anche le briciole. Niente è inutile. Niente è frutto del caso. La certezza della morte vicina, tra un attimo, tra una settimana, un anno, pervade del senso della precarietà ogni istante della loro vita».

E ancora: «Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d'onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un'attività criminale per sopravvivere con dignità?».

Senza dubbio un lettore accanito quale è stato Matteo Messina Denaro avrà letto questo libro. Ed è probabile che si sia sentito compreso proprio da colui della cui uccisione Denaro fu ed è responsabile.

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