Ramelli e gli altri: i cuori neri uccisi dall'odio rosso

Tra il 1970 e il 1983 più di venti giovani di destra persero la vita a causa dell’odio rosso: tragedie dimenticate o minimizzate, spesso accompagnate da un giustificazionismo pericoloso

Ramelli e gli altri: i cuori neri uccisi dall'odio rosso

Il prossimo 29 aprile saranno 48 anni dalla tragica morte di Sergio Ramelli, ucciso da chi si proclamava antifascista. Un ragazzo tranquillo, allegro e socievole, attivo in oratorio e amante del calcio. Una vita spezzata dall’odio rosso, da un tema sulle Brigate rosse costato una schedatura e dunque l’esecuzione brutale a colpi di Hazet 36, una chiave inglese estremamente pesante, da parte di un commando di Avanguardia operaia. Presunti antifà, ma ben distanti da valori come libertà e democrazia. Del resto, il vero antifascismo non ha niente da condividere con simili vergogne e slogan di odio, ma il concetto non sempre emerge con chiarezza.

Anche quest’anno il ricordo di Ramelli è stato macchiato dai soliti soloni di sinistra, con il tentativo di boicottare la commemorazione all’Itis Molinari. Fortunatamente il presidio antifascista si è rivelato un flop, nonostante il sostegno di Anpi e sigle sindacali (Adl Cobas e Usb). Il motivo di cotanta agitazione? La presenza del sottosegretario Paola Frassinetti di Fratelli d’Italia e più in generale l’evento dedicato a un “picchiatore fascista”. Una lapalissiana mistificazione per celare un pericoloso giustificazionismo. Secondo alcuni, infatti, uccidere un fascista o comunque un sostenitore di destra non è un reato. Anche Ramelli, forse, ha fatto la fine che si meritava. Il mondo che va al contrario, la morte del buonsenso in nome di una furia cieca.

Anni di piombo, giovane di destra ucciso

Ma Ramelli non è l’unica vittima degli anni di Piombo e dell’odio dei gruppi di estrema sinistra. Tra il 1970 e il 1983 più di 20 giovani sostenitori di destra hanno perso la vita, “cuori neri” caduti a causa della deflagrazione del terrorismo rosso. Tragedie minimizzate o addirittura dimenticate, assassinii spesso rimasti impuniti perché coperti da pezzi di alta società e politica. In altre parole, storie dolorose. Una guerra tra opposte ideologie che ha sconvolto l'intero Paese, comizi trasformati in guerriglie urbane, schermaglie esplose in esecuzioni.

Come ricordato da Luca Telese nel suo libro Cuori neri (Solferino), il primo ragazzo di destra ucciso negli anni di Piombo è stato Ugo Venturini. La tragedia risale al 18 aprile 1970, a Genova: militante missino e padre di famiglia, Venturini partecipa al comizio di Giorgio Almirante in Piazza Verdi. Non va ad attaccare manifesti e non attacca briga con nessuno, non è di certo un fanatico o un violento. Ma il clima è ostile, complici gli scontri avvenuti anni prima: “Fascisti morirete”, “Almirante, non uscirai vivo da Genova”, alcune delle scritte apparse sui muri della città. Gli estremisti comunisti prendono parte al comizio con il lancio di sassi, pietre e bottiglie piene di sabbia. “Non fate come loro: loro hanno la forza delle pietre, noi quella delle parole”, il messaggio di Almirante ai suoi. Ma una di quelle bottiglie riempite di terra colpisce alla testa Venturini: quindici giorni di agonia, poi la morte datata 1° maggio. Una sciagura festeggiata da Lotta Continua e persino rivendicata per la sua "correttezza": "Giustiziato il fascista Venturini". Nasce anche uno slogan: “1, 10, 100, 1000 Venturini”. La prima vittima missina, il primo passo verso anni sanguinosi, una famiglia distrutta: la moglie, dopo un secondo matrimonio, si suiciderà, mentre il figlio finirà nel tunnel della droga.

Due anni dopo, il 7 luglio 1972, è Carlo Falvella a cadere sotto i colpi dell’odio rosso. Studente di Filosofia all'Università degli Studi di Salerno e vicepresidente del Fuan di Salerno - ma non è un dirigente di spicco, anzi, si è iscritto da appena un anno - Carlo ha gravi problemi alla vista che lo porteranno entro i trent’anni alla completa cecità: per questo studia filosofia, perché si può insegnare senza dover per forza scrivere. Non ha mai fatto una vacanza, non è mai andato all'estero: un ragazzo semplice e genuino. Quel giorno si trova sul lungomare Trieste di Salerno insieme all’amico Giovanni Alfinito, quando a un certo punto si accende uno scontro verbale con il 33enne Giovanni Marini e Gennaro Scariati, entrambi aderenti ai gruppi anarchici. Tutto si risolve senza conseguenze, almeno per il momento. Circa due ore dopo, nei pressi di via Velia, si ripete il diverbio: Marini però si era recato a casa per recupera un coltello. I due militanti missini restano feriti, ma riescono a chiamare i soccorsi. Per Carlo non c’è niente da fare: muore nel corso dell’operazione per un colpo fatale all'aorta. Un altro barbaro omicidio, emblema dell'odio che covava sotto la cenere. Anche in questo caso Lotta Continua è categorica: dito puntato sulle brutalità squadriste e attacco frontale nei confronti di chi condanna la violenza (anche a sinistra).

Le morti di militanti missini aumentano esponenzialmente in quegli anni Settanta, ma il copione è fisso: poche timide condanne dalla sinistra, parecchi tentativi di attivare una speculazione alla rovescia con l’obiettivo di confondere vittime e carnefici. Gli estremisti rossi provano in ogni modo a giustificare quelle azioni criminali: è necessario impugnare le armi per contrastare i fascisti. Anche se fascisti non sono: studenti, operai, militanti distanti dal fanatismo. Tutto pur di scagionare gli autori di simili barbarie, in campo anche intellettuali di spicco come Dario Fo e Franca Rame, in prima linea per difendere a spada tratta Giovanni Marini, con tanto di lettere al presidente della Repubblica Giovanni Leone.

Quanto accaduto il 16 aprile 1973 a Roma passa alla storia come il rogo di Primavalle, per la prima volta negli anni di Piombo la violenza politica si evolve in massacro. Un attacco terrorista in piena regola, il massacro come strumento per risolvere la lotta tra destra e sinistra. Tre esponenti dell’organizzazione Potere Operaio organizzano e portano a termine un attacco incendiario poco dopo le ore 3.00 in via Bernardo da Bibbiena 33, dove abita Mario Mattei, segretario della sezione del Movimento Sociale Italiano nel quartiere. Un uomo di destra, sottoproletario di borgata. Una tanica con diversi litri di benzina e una miccia, tanto basta. Mattei, la moglie e due dei figli più piccoli, Antonella (9 anni) e Giampaolo (3 anni), sono riusciti miracolosamente a fuggire attraverso la porta di casa. Lucia (15 anni), invece, è riuscita a gettarsi dal balconcino del secondo piano, afferrata al volo dal padre. Niente da fare per Virgilio e Stefano, rispettivamente 22 e 8 anni, arsi vivi. Virgilio, un ragazzo tranquillo e intelligente, che frequentava il partito solo perché “obbligato” dai genitori e che si sarebbe dovuto sposare nel 1974 con la sua Rosalba. Stefano, semplicemente un bambino. Per i rossi? Una montatura, un’azione della destra extraparlamentare per scatenare il caos.

Gli scontri tra fascisti e comunisti si intensificano, la violenza verbale è all’ordine del giorno, le minacce si sprecano. Diverse le intimidazioni recapitate ad Emanuele Zilli, attivista di destra nato in Abruzzo ed emigrato al Nord, a Pavia, per dare una futuro alla sua famiglia. Il 2 novembre del 1973 l’operaio-sindacalista viene trovato riverso in via dei Mille, non lontano dal posto di lavoro. Si pensa subito a un incidente. Il 25enne, missino padre di famiglia, muore il 5 novembre dopo giorni di agonia. Eppure qualcosa non torna, dall’occhio pesto alla doppia frattura cranica incompatibile con un’ipotetica caduta. Uno dei casi meno conosciuti, sicuramente non famoso come il battesimo delle Brigate rosse, datato 17 giugno 1974 in quel di Padova.

Un tentativo di furto che si trasforma in carneficina: entrato nella sede del Movimento Sociale Italiano per prelevare alcuni documenti e lasciare qualche scritta sui muri, un commando di cinque terroristi uccide a sangue freddo Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Un imprevisto mutato in un bagno di sangue, il primo segno concreto della pericolosità delle Br. Anche perché i cinque terroristi – Roberto Ognibene, Fabrizio Pelli, Susanna Ronconi, Giorgio Semeria e Martino Serafini – non uccidono i più pericolosi eredi di Benito Mussolini. Giralucci ha 29 anni, fa l’agente di commercio e vende articoli idraulici e sanitari. Missino sin da ragazzo, aveva rischiato la pelle per rubare una bandiera rossa durante una manifestazione del Pci. Lascia la moglie Bruna e la figlia Silvia di appena 3 anni. Mazzola, invece, ha 60 anni ed è un ex carabiniere. Più che missino, è monarchico. Una vita dedicata all’Arma, impegnato nel Movimento Sociale Italiano con compiti di contabilità e archivio. Lascia la moglie Giuditta e 4 figli. “Non era assolutamente nostra intenzione ucciderli”, la difesa del brigatista Ognibene, ma i fori di proiettile sulla tempia di Giralucci e sulla nuca di Mazzola raccontano un’altra verità: le prime di una lunga serie di esecuzioni.

“Nessuna fascista può più considerarsi sicuro”, è la promessa delle Brigate Rosse nei primi volantini, con l’ambizione di portare l’attacco al cuore dello Stato. La preoccupazione cresce, c’è paura nell’aria. Il sangue scorre a fiumi ormai e tutti temono di essere bersagli, sia prime linee che timidi simpatizzanti. Anche le commemorazioni dei caduti possono diventare teatro di offensive e controffensive, di guerriglie urbane: la seconda metà degli anni Settanta è un vero e proprio bagno di sangue. Il 28 febbraio del 1975 a Roma un’altra esecuzione, vittima lo studente universitario Mikis Mantakas. Militante del FUAN in Italia da cinque anni, il greco biondo e dagli occhi azzurri era nella Capitale da un anno: prima abitava a Bologna, dove era stato aggredito di fronte di fronte all’istituto di Biologia per motivi politici: totale di 40 giorni di prognosi. Mikis è figlio di un generale in pensione, che durante la guerra ha guidato le truppe partigiane contro il nazifascismo. Anche la madre è antifascista, fiera oppositrice del regime. Il giovane aveva idee lontane da quelle dei suoi genitori e si era avvicinato alla destra. Una scelta costata la vita: quel maledetto 28 febbraio del 1975 viene raggiunto da due proiettili davanti alla sede del Msi di via Ottaviano nel corso degli scontri avvenuti nelle strade durante il processo agli imputati accusati del rogo di Primavalle. Tanti, tantissimi missini ai suoi funerali. Presente anche Almirante, che al termine della messa improvvisa un discorso a braccio: "Questo non è un comizio, questo è un rito. Ed io voglio dire a tutti voi una cosa molto semplice. In passato vi ho invitato a rifiutare la logica dello scontro e della violenza, e neppure in questa occasione io pronuncio la parola vendetta. Ma non pronuncio certamente parole di rassegnazione o di colpevole oblio, bensì di fierezza e di orgoglio. Dopo questo morto vi dico che o lo Stato ci difende, o i cittadini hanno il dovere e il diritto di difendersi da soli. E a questo punto, temo, dobbiamo difenderci da soli".

Milano. Il 29 aprile del 1976 Enrico Pedenovi è atteso alla commemorazione di Sergio Ramelli – morto un anno prima a causa dell’odio rosso – per pronunciare il discorso di commemorazione. Avvocato ed ex militare della Decima Mas, Pedenovi è considerato uno dei volti più moderati del MSI milanese. Sicuramente non è un estremista, uno pronto a imbracciare pistole e fucili per sostenere le sue ragioni. Pedenovi quella mattina esce di casa poco prima delle 8.00, sale sulla sua Fiat 128 bianca e si ferma subito dal benzinaio per fare il pieno. Ma ad attenderlo ci sono i terroristi: un commando di Prima Linea scende da una Simca 1000 e apre il fuoco. Crivellato di colpi – cinque colpi tutti al torace – per il consigliere regionale missino non c’è niente da fare. Un attentato in piena regola, seppur mai rivendicato: Pedenovi era stato individuato come vittima “facile” della lista di militanti neofascisti firmata Lotta Continua, la sua fine in “risposta” alla morte del giovane di sinistra Gaetano Amoroso. Il missino lascia le due figlie Gianna e Beatrice, rispettivamente di 22 e 11 anni.

Roma è sempre stata al centro della guerra tra fazioni opposte. Negli anni Ottanta le uccisioni brutali di Angelo Mancia e Nanni De Angelis, tra gli altri, ma uno dei casi più truculenti risale alla fine degli anni Settanta. Il 7 gennaio del 1978 il dramma ricordato come la strage di Acca Larenzia. Gli attivisti missini Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta – 18 e 19 anni, la stessa età di Stefano Cecchetti, trucidato un anno più tardi dai “Compagni organizzati per il comunismo” – vengono trucidati davanti alla sede del Movimento Sociale Italiano di via Acca Larenzia, quartiere Tuscolano. I due giovani cadono sotto i colpi delle armi automatiche imbracciate dai criminali di estrema sinistra dei Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale. Poche ore dopo, negli scontri con le forze dell’ordine, cade un terzo attivista, il ventenne Stefano Recchioni, morto dopo due giorni di agonia. L’arma utilizzata per l’assalto, una mitragliatrice Scorpion, verrà trovata qualche anno più tardi in un covo delle Brigate Rosse a Milano: sarà utilizzata per uccidere l'economista Ezio Tarantelli, l'ex sindaco di Firenze Lando Conti e il senatore della Democrazia Cristiana Roberto Raffili.

Acca Larenzia

Spedizioni punitive, con i rossi a caccia di fascisti senza bersagli predeterminati. Spranghe e/o pistole a portata di mano per riservare trattamenti “meritati” al nemico nero. La situazione peggiora radicalmente dopo il 1980, con la strage alla stazione di Bologna. Il Movimento sociale viene relegato in un angolo come partito antisistema, nel mirino di antifascisti democratici e non. I sospetti di coinvolgimenti con i terroristi di estrema destra sono forti, tanto da spingere Almirante a una presa di posizione categorica: “Per noi i terroristi sono nemici della comunità civile. Per noi chi combatte la civiltà, chi spara, chi uccide cittadini disarmati o pubblici ufficiali in servizio, merita a sua volta la pena di morte. E se costui è un terrorista nero, il discorso per noi non cambia, anzi: merita, se possibile, una doppia pena di morte”. Nessuna acquiescenza, al punto da lanciare un’iniziativa destinata a sollevare un putiferio.

L’ultimo militante missino tramortito dalla violenza dell’estrema sinistra è Paolo Di Nella, studente capitolino e iscritto al Fronte della Gioventù prima di diventare adolescente. Capelli lunghi e occhiali a goccia, missino radicale e intransigente, il ventenne è grande amico di Gianni Alemanno. Un ragazzo forte, molto disponibile e sempre pronto a dare una mano agli altri, ma anche tranchant dal punto di vista politico, tanto da finire in manette per un’azione dimostrativa contro la sede diplomatica dell’Unione sovietica per il colpo di Stato di Jaruzelsky. Sono anni ancora più difficili dei precedenti, lo sanno bene tanti politici che oggi ricoprono ruoli di primo piano come Antonio Tajani e Maurizio Gasparri. Spinto anche da un’anima ecologista, Paolo è molto attivo, tanto da disegnarsi da solo i manifesti con pennello e vernice nera. “Lotta di quartiere per il verde pubblico! Fronte della gioventù”, uno degli slogan più utilizzati. È proprio un manifesto a costagli la vita, uno striscione per l’acquisizione pubblica di Villa Chigi: Paolo viene pizzicato ad attaccarlo in viale Libia la sera del 2 febbraio 1983 e viene aggredito alle spalle con spranghe di ferro da . Il giovane perde sangue ma non si sente subito male, tanto da tornare a casa. Nel cuore della notte, i lamenti allarmano i suoi genitori: il medico di famiglia dispone immediatamente il ricovero, con trasporto al Policlino Umberto I. Dopo tre giorni di agonia, la morte.

Tanti gli attestati di solidarietà, da Pertini a Berlinguer, altrettanti i messaggi di condanna per l’ennesima brutalità rossa. Nonostante la voglia di vendetta degli amici militanti di Paolo, nessuna rappresaglia: la sua scomparsa segna la parola fine al tempo delle faide.

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