C’è qualcosa di nuovo in questa sentenza. Anzi d’antico. Parafrasando la malinconia del Pascoli, così si può commentare una decisione di ieri della Corte Costituzionale, riguardo alla revoca del consenso nelle procedure di fecondazione assistita.
È noto che la legge 40 del 2004 aveva tentato di proibire la crioconservazione degli embrioni, per impedire la creazione degli stessi “a futura memoria”, così come la loro eventuale commercializzazione o indiscriminata soppressione. Si era pertanto stabilito che, in un progetto di fecondazione assistita, l’impianto nell’utero materno sarebbe dovuto avvenire entro pochi giorni.
Già all’epoca dell'approvazione della legge, si era posto il problema dell’eventuale revoca della donna all’impianto dell’embrione nel proprio utero. Non essendo ipotizzabile in simili casi un impianto forzato, per evidenti ragioni, che si sarebbe dovuto fare? Era stato quindi previsto che la crioconservazione sarebbe potuta avvenire soltanto “per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna, non prevedibile al momento della fecondazione”. Tra queste cause, ovviamente, avrebbe potuto esserci un ipotetico rifiuto all’ultimo istante della futura madre.
Tuttavia, la Corte Costituzionale, dal 2004 a oggi, ha provveduto a picconare più che ha potuto la filosofia di fondo della legge 40, che per l’appunto era quella di rendere la fecondazione assistita il più possibile omogenea a quella naturale. Così, la crioconservazione è tornata di fatto legittima, e con essa il problema del destino degli embrioni non immediatamente impiantati nell’utero della madre.
Come è naturale, si è quindi riproposto il problema della revoca del consenso all’impianto in utero. La donna avrebbe continuato ad avere un diritto insindacabile in tal senso, perfettamente parallelo a quello di abortire. Ma l’uomo, che ha fornito il seme per produrre in vitro l’embrione?
La questione è stata portata all’attenzione della Consulta in un caso del genere, che si era presentato al Tribunale di Roma: una coppia aveva fatto crioconservare gli embrioni preparati per la fecondazione assistita, ma nel frattempo si era separata; tuttavia, la donna aveva deciso di farseli impiantare lo stesso, per diventare madre sia pure senza il consenso dell’ormai ex compagno.
A questo punto, quest’ultimo ha cercato, vanamente, di fare valere la disparità di trattamento tra lui e l’ex moglie: perché lei ha potuto revocare il consenso all’impianto dell’embrione che diventerà nostro figlio, ma io non posso fare la stessa cosa, ora che non siamo più una coppia?
La Corte Costituzionale, nella sentenza in esame, dopo aver riconosciuto di trovarsi sul limitare di “scelte tragiche” (guarda caso, una volta ci si esprimeva allo stesso modo anche riguardo all’aborto), in quanto caratterizzate “dall’impossibilità di soddisfare tutti i confliggenti interessi coinvolti nella fattispecie”, non ha potuto che confermare la non discriminatorietà del divieto di revoca del consenso paterno.
Infatti, il divieto di ripensamento, anche se vigente per il solo uomo, non si discosta dalla situazione che si verifica nel caso dell’interruzione di gravidanza. Essa, come è noto, è una scelta femminile sulla quale l’uomo non può influire. Solo la donna, ha ricordato il giudice delle leggi, ha “il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze”.
L’uomo, invece, nel momento in cui presta il proprio seme per la fecondazione assistita “è in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre”, e questo rende inammissibile, soltanto nel suo caso, “una radicale rottura della corrispondenza tra libertà e responsabilità”.
Per questo, nella sentenza in esame, c’è pascolianamente qualcosa di nuovo e insieme di antico. Si tratta, infatti, dell’antico problema della responsabilità nell’esercizio della libertà sessuale. Qualcosa che, dalle leggi sull'interruzione di gravidanza in poi, nella modernità sembra essere richiesta soltanto al padre.
Quando negli anni Settanta si svolse il dibattito sulla legittimazione dell’aborto, da parte cattolica c’era stato chi aveva avvertito del fatto che, per la donna, la possibilità di rifiutare liberamente la maternità avrebbe avuto l’effetto di liberare l’uomo dalle responsabilità che tradizionalmente aveva di fronte all’eventualità di una gravidanza.
Fu un monito rimasto inascoltato, e in fondo era pure erroneo. Da parte femminista, infatti, era sempre stato ben chiaro che la responsabilità, in queste vicende, sarebbe dovuta rimanere una prerogativa esclusivamente maschile. Era stato chiaro fin dal principio, per i sostenitori del libero aborto, che l’obiettivo fosse quello di rendere la donna l’unica titolare del diritto di vita e di morte sui propri figli. Quello ius vitae et necis che nella romanità più arcaica spettava esclusivamente al padre.
Qualche anno fa, nel 2008, dal momento che Giuliano Ferrara si era messo in testa di presentarsi alle elezioni con una lista finalizzata a rimettere in discussione il diritto di abortire, da sinistra gli si era risposto con dei manifesti molto esplicativi. In essi, il disegno di un bel volto di donna portava un dito con le unghie laccate davanti alle labbra altrettanto rosse e turgide. Tutto questo per ammonire tutti i maschi d’Italia con uno slogan perentorio: “Sta zitto! Lo sai, si nasce solo se lei vuole!”.
Oggi le cose non sono cambiate, e quindi sarebbe meglio rassegnarsi al fatto che, nelle vicende relative alla sessualità e alla filiazione, non è da parte femminile che si possa, né si debba, pretendere la responsabilità. Basti pensare, anche se apparentemente non c‘entra molto, come oggigiorno, di fronte all’ipotesi di un rapporto non consensuale soltanto la donna ha l’insindacabile diritto di dire “non volevo”, o anche - come dimostra un recente caso di cronaca - “non so se volevo, perché non me lo ricordo”.
Da parte femminile oggi in simili vicende c’è solo libertà, e per gli uomini è assai difficile prendervi le misure. Basta leggere nuovamente le cronache, per cui una donna che uccide il proprio figlio appena nato è pur sempre una vittima, mentre un uomo che, sia pure in un momento di disperazione, commette gesti anche molto meno estremi, diventa comunque un mostro da gettare in galera.
La libertà sessuale è ancora oggi una prerogativa femminile, mentre al riguardo la responsabilità, come dicevamo, è tutta quanta dalla parte degli uomini. Di fronte a ciò, tuttavia, invece di lamentarsi e pretendere improbabili parificazioni, sarebbe il caso di riscoprire che proprio nella responsabilità si trova l’essenza del maschile.
Il matrimonio, come sappiamo, anche dal punto di vista etimologico consisteva nel “matrem munere”, cioè nel garantire e proteggere la madre. Oggi gli uomini lamentano che questo ruolo viene a loro in gran parte impedito, perché le donne questa protezione tendono a pretenderla per se stesse, senza corrispettivi, solo quando fa loro comodo. Eppure, proprio in questa vocazione ad assumersi le proprie responsabilità di fronte alla sessualità e alla vita, senza pretendere che esse siano reciproche, oggi dovrebbe essere ritrovata l’essenza del maschile.
Il codice paterno consiste essenzialmente nella capacità di donarsi. Anche se il delirio femminista pretende che i femminicidi siano espressione del persistente “patriarcato”, ogni uomo che abbia ancora piena coscienza della sua virilità ben comprende che gli uomini che arrivano a uccidere, o anche solo a usare violenza verso la propria compagna, sono invece fondamentalmente deboli.
Si può avere comprensione per la loro debolezza, perché anch’essa nasce dall’evaporazione del ruolo del padre, e quindi da una enorme difficoltà - per le ultime due generazioni di maschi - a essere stati educati a quelle responsabilità che rendono tale un uomo.
I più giovani, poi, oggigiorno si trovano pure esposti al fenomeno della “fluidità di genere”, che sarà solo una moda, d’accordo, ma che non favorisce di certo la consapevolezza di ciò che rende tale un uomo, a differenza di una donna. Ciò non toglie che a questa responsabilità, prima o poi, si dovrà tornare.
C’è un bellissimo racconto di Haruki Murakami - non a caso contenuto nella raccolta intitolata Uomini senza Donne - dove lo scrittore giapponese immagina che il Gregor Samsa della Metamorfosi di Kafka, da scarafaggio che era, un giorno si sia risvegliato nuovamente tramutato in essere umano.
Dopo un periodo di comprensibile smarrimento per la perdita del carapace, che tutto sommato lo proteggeva e fortificava, il Samsa di Murakami si sente trasformato in un mostro. Ma impara nuovamente a essere umano innamorandosi di una ragazza deformata da un'enorme gobba, e dunque anche lei mostruosa agli occhi dei contemporanei.
In definitiva, si tratta di un’allegoria della necessità che oggi entrambi i sessi hanno di andare oltre ciò che è stato deciso per loro, per ritrovare
se stessi. La rivoluzione sessuale degli anni Settanta ha distrutto le antiche consapevolezze. Ma per salvare la nostra umanità, e il nostro essere autenticamente uomini o donne, da qualche parte bisognerà pur cominciare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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