La giustizia è femmina. O forse no. Almeno, non lo può più essere, nel momento in cui la fatidica domanda su “cosa sia una donna” sta cominciando a lambire anche la nostra giurisprudenza.
Nemmeno una settimana fa, il Tribunale di Trapani ha emesso una sentenza che il mondo lgbt, per ovvie ragioni, non ha esitato a definire storica: un uomo ha ottenuto il diritto a cambiare nome e identità di genere all'anagrafe, pur non avendo intenzione di sottoporsi ad intervento chirurgico, né ad alcuna terapia ormonale.
Il principio di diritto è stato desunto da una sentenza di Cassazione del 2015, che aveva autorizzato il cambio del nome per una persona che aveva invece programmato, anche se non ancora eseguito, l’intervento chirurgico. Secondo i giudici siciliani, infatti, il principio espresso dalla Suprema Corte sarebbe stato che “l'intervento chirurgico modificativo dei caratteri sessuali non incide sulla fondatezza della richiesta di rettifica anagrafica”. La conseguenza di tutto ciò sarebbe che, “nei casi in cui l'identità di genere sia frutto di un processo individuale serio e univoco, l'organo sessuale primario non determina necessariamente la percezione di sé”.
Insomma, se ci si passa la battuta sessista (tanto chi scrive non deve lavorare in Rai), per i giudici italiani è ancora vero che le dimensioni non contano. Basta la parola. E non c’erano molti dubbi sul fatto che, anche in Italia, per simili transizioni ci si sarebbe dovuti passare. Nel mondo anglosassone, quello del diritto alla “identità percepita” è ormai un fatto acquisito. Anche se - viste le disastrose conseguenze determinate dai cambi di sesso “sulla parola”, ad esempio nelle competizioni sportive e nei regimi carcerari - pare che ci sia già chi vuole correre ai ripari.
Si dirà che si tratta di casi estremi, che difficilmente potranno interessare la maggioranza della popolazione. Anche se il nostro diritto - con il divorzio prima e l’aborto poi - ci ha già ampiamente dimostrato che ciò che si concede come rimedio, rispetto a una eccezione, può col tempo diventare la regola.
Del resto, il diritto di famiglia italiano, per come si è evoluto negli ultimi quarant’anni, paradossalmente ci conferma che maschile e femminile - nonostante la distruzione in atto dell’antico concetto di famiglia - sono concetti ancora molto ben presenti nella giurisprudenza.
Per un avvocato, è fin troppo facile sentirsi dire da un cliente maschio, ai primi approcci con la propria crisi familiare, che “tanto i giudici danno sempre ragione alle donne”. È un pregiudizio ormai acquisito. Nella pratica, appare appena meno inquietante di quello - parimenti ben presente - per cui non appena un nucleo familiare entra in difficoltà, le persone comuni hanno paura di ricorrere alla legge, perché “poi arrivano gli assistenti sociali e rischiamo di vederci portare via i figli”.
Come per tutti i pregiudizi, c’è un fondo di verità che li ha determinati. Essi però finiscono sempre per sfociare in esagerazioni.
Ma a parte questo, è vero che i ruoli di genere sono ancora insostituibili, per gran parte della nostra giurisprudenza. È il principio della cosiddetta maternal preference, che viene correntemente indicato con il termine anglosassone, essendo stato individuato negli Stati Uniti quando in Italia la realtà del divorzio non era ancora consolidata. Si tratta del criterio per cui, nelle separazioni tra i genitori, i figli tendono a essere affidati preferenzialmente alla madre.
Prima del 2006, quando in Italia è entrata in vigore la legge n. 54 sull’affidamento condiviso, la situazione era ormai diventata insostenibile: l’ordinamento, infatti, continuava a considerare la disgregazione di una famiglia come una eccezione (ma non lo era già più), e quindi applicava ancora il vecchio criterio colpevolizzante, stile Anna Karenina, per cui ci doveva sempre essere un responsabile da punire. Così, la regola dell’affidamento esclusivo, una volta che il divorzio è diventato un fenomeno di massa, aveva finito per rendere il padre praticamente privo di contatti nei confronti della prole. Questa, infatti, veniva affidata in via esclusiva alla madre in oltre il 95% dei casi.
Negli ultimi anni le cose hanno iniziato a cambiare, essendo ormai un fatto acquisito anche per buona parte dei giudici - nonostante le prime resistenze - che è nell’interesse dei minori conservare un rapporto equilibrato con entrambi i genitori. I classici “fine settimana alternati” nei quali i papà dovevano riportare i figli a casa della madre rigorosamente entro le sette di sera della domenica, rischiando di venire denunciati ai carabinieri se tardavano un quarto d’ora, sono per fortuna solo un brutto ricordo.
Tuttavia, in caso di separazione dei genitori, la nostra giurisprudenza sembra non aver ancora abbandonato lo schema per cui la donna-madre ha principalmente il compito di accudimento della prole. Mentre l’uomo-padre ha invece quello del provider, cioè di reperimento di risorse economiche per il sostentamento di tutti.
Si dirà, non a torto, che questa è ancora la realtà dei fatti, e che i grandi progressi del lavoro femminile - che hanno portato un sensibile riequilibrio tra uomo e donna anche nella proporzione dei rispettivi redditi (anche perché ormai non esiste più che un uomo riesca a mantenere da solo tutta la famiglia) - non hanno rivoluzionato la situazione.
Infatti, la giurisprudenza attuale ha determinato per lo più degli “sconfinamenti” dell’uno nel territorio dell’altra, senza fare venir meno la netta divisione per genere dei compiti assegnati. Oggi anche in Italia la donna lavora, ma il ruolo di mantenimento spetta ancora al papà. Quest’ultimo non è più interdetto dal “visitare” i figli - come ancora si dice nella prassi e nei decreti dei tribunali, con un termine assai esplicativo - ma rimane fuori discussione che il ruolo di accudimento spetti alla madre.
La modificazione della realtà sociale ha fatto sì che, a livello internazionale, sia stato ormai acquisito il criterio della shared custody, per cui, in via preferenziale, i tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore separato dovrebbero essere, se non uguali, non meno di due terzi con uno e un terzo con l’altro. Fin dalla più tenera età dei bambini.
Questo criterio è persino stato oggetto di una raccomandazione del Consiglio d’Europa, e in molti paesi è una realtà già ampiamente accettata, anche perché la si considera indispensabile per venire incontro alle ragioni delle donne che lavorano. E infatti le donne di oggi, in costanza di matrimonio o di convivenza, quasi sempre chiedono la collaborazione del partner nei compiti di cura della prole. Non si vede quindi perché, dopo la separazione, debbano essere relegate alla gestione unica dei figli, che comporta per loro anche la rinuncia alla possibilità di una piena autodeterminazione in ambito professionale e sociale.
In Italia, tuttavia, quando nella scorsa legislatura si è provato a recepire il suddetto criterio, la levata di scudi delle associazioni familiariste, pure della magistratura, è stata impressionante. Si è parlato di un ritorno del “patriarcato” e di una messa in discussione dei sacrosanti “diritti delle donne”. Tant’è che non se ne è fatto nulla, e nella nostra giurisprudenza di merito sono ancora relativamente rari i casi in cui si può evitare che l’uomo debba pagare alla ex compagna una somma fissa, almeno simbolica, per il mantenimento della prole.
È vero che stanno cominciando a diventare frequenti le sentenze in cui i giudici recepiscono il cosiddetto criterio del “mantenimento diretto”, per cui, se i genitori percepiscono più o meno lo stesso reddito, e possono trascorrere con i figli tempi equilibrati, anche durante i giorni infrasettimanali, non è necessario che sia pagato un assegno. Ma si tratta ancora di situazioni non comuni, dove peraltro è necessario che vi sia un accordo tra le parti perché altrimenti i giudici - se non è previsto il rassicurante assegno mensile - possono anche rifiutarsi di omologare la separazione.
Insomma, i ruoli di genere nella famiglia ancora sussistono. Anche in caso di crisi della stessa, che pure in Italia non è più un fenomeno contenuto rispetto agli altri Paesi d’Europa.
L’attuale Ministro della Famiglia, Eugenia Roccella, sembra essere affezionata al suddetto principio, tant’è che a suo tempo non si era pronunciata a favore della introduzione della shared custody. Lo si può capire, perché chi difende la famiglia naturale difficilmente può scordarsi di come certi ruoli, al di là dell'ideologia, nella società reale non verranno mai meno.
Tuttavia, specie ora che il diritto di famiglia è stato nuovamente riformato dall’intervento che porta il nome di una donna, il ministro Cartabia, sarebbe il caso di prenderne atto. Si potrebbe anche mandare in soffitta gli ultimi anacronismi, che pure resistono nella prassi. Come, ad esempio, quello per cui la casa familiare, indipendentemente dal titolo di proprietà, debba essere sempre e comunque assegnata al genitore che rimane a vivere prevalentemente coi figli. Sappiamo tutti che, nei fatti, quest’ultimo è ancor oggi quasi sempre la madre: non ci si venga a raccontare che si tratti di una tutela per i figli, che devono rimanere nell’ambiente dove sono nati e cresciuti.
Infatti, sappiamo tutti che - se i genitori sono d’accordo ovvero se la madre ha interesse a cambiare residenza - nessun giudice pone obiezioni per trasferire i figli assieme a lei.I ruoli di genere non saranno un pregiudizio, ma, ancor oggi, l’automatismo di certe norme e di certe decisioni invece lo è.
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