Il tartufo bianco sprigiona un aroma tra i più pervasivi che giostra in un gioco di rimandi tra sentori agliacei, spunti micotici e suggestioni terrose, un impatto da gestire in punta di calice. Compare subito lineffabilità del genius loci che ci fa optare per il vitigno più nobile: il nebbiolo, in primis nella sua declinazione di Barolo dalle consuete fragranze fiorite di viola, ai precisi sentori dei piccoli frutti di bosco, in primis le polpute more rosse, alle note di spezie e goudron. Quello dei barolisti vecchio stampo come Mascarello, Baldo Cappellano, Giuseppe Rinaldi, Giovanni Conterno. In casi come questi si può attingere alle annate più antiche senza nessun problema, quelle giuste come 1974, 1978, 1982 e 1985. Benissimo, ovviamente, anche i Barbaresco ma non dimentichiamo i Gattinara (Travaglini su tutti), i Boca (del Podere Ai Valloni), i Ghemme (Antichi Vigneti Cantalupo). E se si vuole uscire dal Piemonte ecco i suggestivi nebbiolo della Valtellina.
Ma il tartufo si presta ad altro: pensiamo al matrimonio con grandi chardonnay, in primis quelli leggendari della Borgogna nei quali la materia grassa e minerale sinterseca meravigliosamente con le suadenze di fondute e creme a supporto del tartufo.
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