Nel buio brilla la luce. È la prosa divina ma sempre feroce di Flannery O'Connor

Ha influenzato molti celebri scrittori e cantautori come Springsteen e Cave

Nel buio brilla la luce. È la prosa divina ma sempre feroce di Flannery O'Connor

Quando penso a Flannery O'Connor subito vengo colta da un'immagine, immancabilmente. Dovrei ricordare i suoi libri e invece mi assale l'idea di un cacciatore. Un cacciatore micidiale. Implacabile nel mirare, tremendo nel raggiungere i bersagli e ancora più feroce nell'afferrare la preda: eccola dunque, l'autrice che ha scuoiato la lingua come pochi altri, la sanguinaria che ha trattato le parole come stimmate, la persona che ha reso la scrittura un ordigno di rara incandescenza.

Brusca e sdegnosa, così la definì il poeta statunitense Robert Lowell. Senza pretese eppure impavida, alacre, accanita, splendida e inappariscente, ma soprattutto «eroica come una santa»: e qui la similitudine non è scontata né casuale, dicendo anzi moltissimo di una scrittrice tanto alta e irripetibile, nata in Georgia esattamente cento anni fa, il 25 marzo 1925, e amata in tutto il mondo ancora oggi.

Flannery O'Connor è diventata nel frattempo un'icona pop di culto. La vediamo, oltre che sugli scaffali delle librerie, anche su una quantità indecente di borse, tazze e magliette; e ugualmente su francobolli e cartoline, ma anche su puzzle, poster e altri gadget di vario genere. Vediamo questo viso ormai memorabile, docile eppure severo, pieno di pietas e durezza, spesso sorridente, spessissimo costretto al sorriso per non finire totalmente in balìa di una malattia orrenda: un lupus per l'esattezza, che la farà morire a soli trentanove anni a Milledgeville, in una fattoria chiamata Andalusia, anch'essa diventata leggendaria.

Qui Flannery O'Connor visse con la madre Regina. Qui allevò più di quaranta pavoni, da lei follemente amati, insieme ad altre razze di uccelli di cui non faceva che vantarsi. Qui scrisse finché ebbe forza e definì con maggiore nettezza quella che fu sempre un'esigenza radicale, una voce narrativa che aveva il dono della dittatura, una natura poetica e stilistica stupefacente almeno quanto consapevole.

Non pochi sono stati e sono ancora i suoi ammiratori, i quali vanno ben al di là di cerchie puramente letterarie. Ciò è potuto accadere perché l'immaginario offerto da Flannery O'Connor è pervasivo, per non dire tirannico. Dai racconti brevi ai romanzi (La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti), dai primi contributi per la tesi di laurea in scrittura creativa e alle ultime, illuminanti prove, le sue storie non cambiano mai. Sono tutte trasversali e archetipiche. Sono inoltre vividissime, sono ammalianti, oppiacee nella loro seduzione. Le sue storie sono strambe e grottesche, ma pure votate alla tenerezza e al candore, sono anomale e disturbanti e in più agiscono in fretta su chi legge, epidermicamente, come mirabolanti punture d'insetto, veleni spettacolari che una volta iniettati è difficile che si dileguino.

Flannery O'Connor consegna così ai lettori tutta la propria solarità tribolata, tutta la propria vita usata come specchio del creato e tutto il Sud degli Stati Uniti in cui è cresciuta, lo stesso che lei descriverà nella sua essenza rovente, con una violenza che rasenta la sensualità, con un male umano che duella col bene divino, precisamente con un Dio cattolico e un Cristo Incarnato, in cui la scrittrice credeva col più grande dei fervori e senza la minima bigotteria, e che ovviamente pose anche al centro della sua affabulazione.

Non ci troviamo quindi davanti a una semplice narratrice. Parliamo al contrario di una donna che usava la penna come una scure, che diceva di avere un cuore di puro acciaio e di scazzottare l'angelo custode. Parliamo di un'avanguardia bell'e buona, di una macchina di epica moderna, di una razza particolare di profetessa: metà donna e metà spirito, metà Giovanna d'Arco e metà Cassandra, capace di intercettare il mondo e restituirlo spietatamente agli altri.

E fra questi altri figurano anche degli illustri: come Nick Cave, cantautore che prenderà a piene mani dall'autrice, aggrappandosi nel suo stesso modo ai meccanismi dell'ironia e dell'ossessione, e adottandone il medesimo linguaggio visionario, il fluire petroso, le metafore viscerali e acuminate, le simbologie estenuanti e i nessi sempre prodigiosi, che O'Connor trasse soprattutto dall'Antico Testamento.

Altro esempio eclatante è quello di Bruce Springsteen, pessimo frequentatore di libri nel corso dell'infanzia, come ha confessato, il quale si riaccostò alla lettura proprio grazie a Flannery O'Connor, a cui si sentì vicino per una straordinaria affinità, alla quale è del resto debitore di non pochi suoi testi e atmosfere. «In quelle sue storie», ha dichiarato una volta, «c'era qualcosa che sentivo catturasse una certa parte del carattere americano di cui ero interessato a scrivere. Sono state una grande, grande rivelazione». Rivelazione che Springsteen risolverà in uno storytelling fatto di continue lotte interiori, di guerre umane sommamente spirituali. Le sue canzoni parlano infatti di combattimenti, delusioni e speranze. Parlano di colpa e di capacità di indicare il peccato. E ancora di decadimento, forza e redenzione: tutti temi che derivano da Flannery O'Connor, la quale eserciterà la sua influenza maggiore nell'album Nebraska, dell'82, non a caso l'opera di Springsteen più misticamente problematica, che dialoga in maniera netta col dramma delle emozioni e con le loro potenzialità più estreme. Springsteen allora leggeva intensamente O'Connor, e proprio quei suoi racconti, ha affermato, «facevano pensare all'inconoscibilità di Dio e suggerivano una spiritualità tenebrosa che a quel tempo trovava risonanza con i miei stessi sentimenti».

Un marchio perciò, il marchio oconnoriano, si è impresso nella cultura musicale statunitense, e similmente nel cinema (pensiamo al filone del gotico meridionale ma anche ad alcuni lavori di Quentin Tarantino), nella pittura, nella fotografia e in molto altro, e non sorprendentemente, essendo stata Flannery O'Connor in primis un paradigma di sperimentalismo, dipingendo non pochi quadri, che a brevissimo saranno esposti in Georgia, e disegnando fumetti fin dall'età di cinque anni. Attualmente raccolti nel volume The Cartoons, pubblicato nel 2012, quest'ultimi sono piccoli bozzetti, ma già molto caustici, realizzati tramite inchiostro e tagli di linoleum: un centinaio di vignette in bianco e nero, che riflettono su un quotidiano naif e spensierato, assai distante dalla realtà ed espresso dalla giovanissima autrice satiricamente.

Tuttavia anche da tale angolatura, all'apparenza minore, cogliamo la maestosità di Flannery O'Connor, «un'autrice scandalosa per il suo talento», come ha ben detto Carmen Verde, fra le migliori autrici contemporanee italiane, «in grado di mettere una risata in un sacco e farla brillare di un buio impareggiabile».

Esatto, proprio in questa maniera, da questo cono di luce tanto tagliente, Flannery O'Connor contemplava la vita, il suo mistero e la sua grazia indicibili, la sua verità divina e il suo miracolo di espressione: lei, come nessun altro, ha saputo dargli un nome.

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