Nel cuore di Oppenheimer, il "distruttore di mondi"

L'affascinante racconto del trionfo e della caduta del fisico che ci ha portato nell'era atomica

Nel cuore di Oppenheimer, il "distruttore di mondi"

L'attimo in cui il sole esplose sulla terra è l'attimo che lo ha consegnato alla Storia. Quella tremenda energia ha come proiettato e inciso la sua ombra - quella di un uomo magrissimo e dinoccolato con la sigaretta sempre in mano - sulle vicende umane. E lui, Robert Oppenheimer, Oppie per gli amici, aveva una percezione profonda, filosofica, di quello che la furiosa scissione degli atomi avrebbe provocato. E siccome conosceva il sanscrito, del resto traduceva agilmente anche dal greco antico e dal latino, la sua mente corse al Bhagavad-Gita: «Io sono diventato Morte, il frantumatore dei mondi». Non era solo una bella frase da buttare lì mentre si consegna all'umanità una nuova e tremenda responsabilità. Il fisico a capo del progetto Manhattan, che da ragazzo aveva studiato alla prestigiosa Ethical Culture School, aveva già fatto i conti con la sua coscienza in tutti quegli anni, messo in contatto la ferrea logica e le discipline orientali, ma solo nella luce della Bomba, nella verità della Bomba il suo percorso umano giungeva a compimento.

Che compimento? La presa di coscienza che ogni uomo è un mondo e proprio per questo può distruggere il Mondo. Che la pace non gli è propria anche se l'insegue sempre. Che il confine tra forza e fragilità è di una labilità estrema. E, sempre, su quel confine si gioca l'esistenza della specie, un confine dove la logica si frantuma e regala un enorme potere che nessuno può facilmente gestire. Infatti il grande potere dell'atomo si mangiò anche Oppenheimer. Da genio osannato passò rapidamente, dopo la Guerra, a principale sospettato della caccia alle streghe del senatore Joseph McCarthy. Venne allontanato dagli incarichi pubblici lui che era stato il «Prometeo americano». Passata al setaccio la sua vita, aveva frequentato (come quasi tutti gli intellettuali Usa) esponenti del partito comunista, venne messo di lato. Principalmente perché aveva paura dell'uso massiccio del golem che aveva costruito, temeva gli esiti devastanti delle bombe all'idrogeno. La riabilitazione, parziale, arrivò solo nel 1963 quando il presidente John F. Kennedy gli conferì, nel 1963, l'Enrico Fermi Award: gli venne consegnato da Lyndon Johnson dopo la morte del presidente a Dallas.

Ma Oppenheimer era ormai tornato da tempo ad essere uno scienziato puro, quasi un filosofo della fisica, amava trascorrere il suo tempo al mare, come quando ragazzino dominava le tempeste con la sua piccola barca a vela, amava le sue tante, eterne sigarette. Morì di tumore alla gola il 18 febbraio del 1965, aveva 62 anni.

Le sue ceneri vennero buttate in mare e con esse andò perduto anche quell'enorme oceano che era la personalità di questo scienziato dall'intelligenza sfaccettata come un diamante. Queste sfaccettature vengono, almeno in parte, restituite dalla biografia, vincitrice di un Pulitzer, a firma di Kai Bird e Martin J. Sherwin: Oppenheimer (Garzanti, pagg. 854, euro 20).

Testo ponderoso, occupano cento pagine solo le note, che fa da base anche all'omonimo film di Christopher Nolan, che arriverà nelle sale cinematografiche degli Usa a fine luglio, scava a fondo nella vita dello scienziato. Soprattutto nella sua giovinezza. Perché se dell'Oppenheimer di Los Alamos e della corsa alla costruzione dell'atomica si sa moltissimo la sua formazione è stata indagata meno.

Il geniale organizzatore e coordinatore di scienziati dalla personalità complessa si autocostruì a colpi di volontà ferrea sulle spalle di un ragazzino intelligente e fragile.

Nato il 22 aprile 1904 J. Robert Oppenheimer veniva da una famiglia di immigrati tedeschi di prima e seconda generazione che si sforzavano di essere americani. Esattamente come si sforzavano di vivere un ebraismo moderno che avesse valenze soprattutto etiche. Una madre elegante e artistica, un padre commerciante di talento e dalla cultura onnivora, il piccolo Robert fu cresciuto in una agiatezza in cui tutte le sue doti intellettuali venivano incoraggiate. Un surplus di stimoli che ne fecero un bambino solitario che tra i sette e i dodici anni già discettava di mineralogia, mentre nel contempo sviluppava una enorme cultura letteraria. Risale a quel periodo la sua prima conferenza al Club mineralogico di New York. Per parlare dovette salire su uno sgabello. Ma la sua relazione finì tra gli applausi. Dopo furono degli studi superiori condotti in assoluta eccellenza - «Fatemi delle domande in latino, io poi vi risponderò in greco» - e le università di Harvard e poi di Cambridge dove la sua mente onnivora spaziava dalla letteratura alle chimica e solo tardivamente alla fisica.

Bello di una bellezza aliena e magnetica, il giovane Oppenheimer trasudava inquietudine. Si sentiva sempre fuori posto, polverizzava i suoi stessi insegnanti - al suo esame di dottorato, nel 1927, il fisico James Franck disse a un collega: «Ne sono uscito appena in tempo, stava per cominciare a fare a me delle domande» -, passava da scatti d'ira a profondissimi momenti di comunione e amicizia con il prossimo. A tratti su tutto questo esplodeva la depressione, depressione che forse lo portò persino al tentativo di avvelenare un professore a Cambridge. Insomma è esistito un Oppenheimer bulimico di stimoli nella sua genialità e instabile in modi incredibilmente vicini a quelli del fisico italiano Ettore Majorana (1906-1938). Ma in Oppenheimer le furie giovanili, anche grazie alla lettura di Proust durante un viaggio in Corsica, giunsero ad un complesso equilibrio. Nasceva così lo scienziato che avrebbe ispirato, lavorando tra l'Università di Berkeley e il Caltech, una intera generazione di fisici teorici. Ma uno scienziato che, dietro ad ogni scoperta nel campo della fisica metteva una riflessione filosofica amletica e tragica. Già nel 1931 scriveva: «Credo che il mondo in cui vivremo nei prossimi trent'anni sarà un luogo assai agitato e tormentato, ma non credo che ci sarà un compromesso possibile tra farne e non farne parte».

E infatti nella luce accecante dell'esplosione di The Gadget, il 16 luglio 1945, ogni compromesso sparì. Il genio introverso aveva regalato all'uomo il più inquietante dei doni, lo aveva fatto dopo essersi guardato dentro. Non resta che sperare avesse visto giusto.

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