È nel mare che si rispecchia l’anima dell’uomo

Affrontare il vento e le onde è la più grande delle avventure, una metafora della vita. Ecco perché tutti i veri scrittori si sono misurati narrativamente con il mondo delle acque e della navigazione. Un’antologia «epica» lo dimostra

Se dovessi suggerire al lettore una rotta dentro l’ondosa antologia intitolata Racconti di vento e di mare curata da Giorgio Bertone (Einaudi, pagg. 574, euro 22), proporrei di partire dal fondo, dove troverà le pagine in cui un narratore d’eccezione, l’autore degli Atti degli Apostoli, racconta la tempesta che prese la nave su cui viaggiava San Paolo in vista di Creta e la sballottò per quattordici giorni sull’Adriatico, sino al naufragio e all’approdo dei 276 passeggeri, a nuoto o aggrappati a relitti, nell'isola di Malta.
Al contrario dell’Odissea, la Bibbia, tra i libri fondatori della nostra civiltà, non è tutta piena di mare. Ma le pagine in cui lo evoca, l’episodio di Giona nei Profeti, il viaggio di San Paolo verso Roma negli Atti degli Apostoli, sono destinate a diventare archetipi e modelli decisivi per tanti scrittori che verranno. E in particolare per quegli autori che non descrivono soltanto onde e tempeste e uomini che le affrontano, ma vedono nel mare lo specchio più vasto, cangiante, estremo dell’anima umana, vi inscrivono la lotta micidiale e senza tregua tra il Bene e il Male, tra la libertà e la schiavitù, tra Dio e il Diavolo. La letteratura di mare è essenzialmente questo: una letteratura epica e d’avventura, ossessionata da visioni e da temi morali portati all’eccesso, in cui il viaggio tra le onde si mostra metafora della ricerca di un tesoro e un mistero, di una verità impossibile.

Poe, Melville, Stevenson, Conrad. Di Poe, l’antologia contiene il racconto Manoscritto trovato in una bottiglia, una mirabile cronaca visionaria, allegorica, di un viaggio su una nave fantasma sino al naufragio in un vortice infernale. Di Melville, L’isola di Norfolk e la vedova ciola, in cui Hunilla, meticcia indiana, perde il marito e il fratello su un’isola deserta e, novella Robinson, sopravvive sino all’arrivo dei salvatori. C’è tutto Melville: le navi, l’esotico, la lotta, la fatalità, la solitudine. Di Stevenson leggiamo I Merry Men, un racconto scozzese giocato su paesaggi di mare, echi gaelici, demoni, tesori sepolti, follia, delitto. Conrad, in Fedeltà della nave e crudeltà del mare fa della descrizione di un salvataggio di naufraghi il pretesto per una riflessione implacabile sul mare, che gli appare ingeneroso, inconsapevole del suo potere di despota selvaggio, insensibile, indifferente alle sofferenze umane e al coraggio. Sono gli autori cui dobbiamo libri di esperienze estreme come Gordon Pym, Moby Dick, L’isola del tesoro, Lord Jim. Jack London, che forse non ha la loro statura letteraria, ci dà in ogni caso, con Il discendente di McCoy, un racconto esemplare e bellissimo. McCoy, che vive sull’isola di Pitcairn, è il discendente di uno degli ammutinati del Bounty. Esce dunque da una delle storie di mare più emblematiche e tragiche di ogni tempo. Ma è ormai un garbato, paziente, abilissimo conoscitore dell’oceano, che aiuta il capitano di una nave in cui sta covando un incendio a trovare una spiaggia dove farla arenare, e collabora proprio lui, con la sua saggezza, a scongiurare un ammutinamento. Guy de Maupassant sfoggia uno stile magistrale. Ma la storia dei due fratelli pescatori, di cui uno sacrifica il braccio dell’altro rimasto impigliato nella rete per non rinunciare al ricco carico di pesci che contiene, ha un clima diverso, è intriso di un naturalismo disperato che può preludere a Verga. Tra i francesi, cerco invano Pierre Loti. E il genio di Jules Verne. Leggo invece testimonianze di grandi navigatori come Bernard Moitessier e Joshua Slocum, James Cook e Ernest Shackleton. Tra gli italiani, scritti di Colombo, il più grande di tutti, Garibaldi, che prima di essere un soldato fu un marinaio e un corsaro, De Amicis, sommo giornalista autore del reportage Sull’oceano.

Consiglio al lettore, schivati diversi scogli, di arrivare alle pagine in cui Alexandre Corréard e Henri Savigny raccontano da superstiti gli eventi sanguinari e sconvolgenti della Zattera della Medusa. Un aristocratico inetto fa naufragare una nave francese nel 1818 al largo delle coste del Senegal. Pochi si salvano sulle scialuppe. Gli altri, 158 anime, vengono abbandonati su una zattera che va alla deriva. Tra fame, tempeste, oscurità, suicidi, rivolte, efferatezze terribili, con un epilogo di cannibalismo, vanno anche alla deriva giustizia, fraternità, pietà, umanità. Mai il mare assistette con più indifferenza alle crudeltà e alle follie estreme dell’uomo.

Allora ha ragione Conrad? O possiamo ancora pensare, con Baudelaire, o anche semplicemente con un navigatore di oggi come Olivier De Kersauson, che gli uomini liberi ameranno sempre il mare, che il mare è lo specchio delle contraddizioni dell’uomo, e che c’è in esso una insondabile felicità?

A ciascuno la sua risposta.

A me, nato sul mare, tornato a vivervi, intenzionato a scriverne ancora, piace riportare queste parole di Albert Camus: «Sono cresciuto sul mare e la povertà mi è stata fastosa, poi ho perduto il mare, tutti i lussi mi sono sembrati grigi, la miseria intollerabile».

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