Nella Grecia più Grecia il mito incontra la storia

Dalla porta dell'Ade al "buen retiro" di Patrick Leigh Fermor. E da Sparta alla tomba di Bruce Chatwin

Nella Grecia più Grecia il mito incontra la storia

Il Mani è la parte del Peloponneso contrassegnata dalla catena montuosa del Taigeto e che si chiude, come una sorta di indice puntato sul Mediterraneo e sull'opposta costa africana, a Capo Matapan o Capo Tenaro. Qui, per il mondo antico, c'era la porta dell'Ade, ovvero l'ingresso nel mondo dei morti, ma se si risale il suo costone orientale, lungo il golfo di Laconia, si arriva all'isolotto di Cranae, davanti a Giteo, dove, secondo Omero, Elena e Paride conobbero la loro prima notte d'amore e insieme l'ultima notte di quiete fra greci e troiani.

Il nome più famoso nel Mani è quello di Sparta, seguito subito dopo da quello di Mistrà, dimora finale dei Paleologhi, la dinastia con cui si chiuse l'impero di Bisanzio. Era la patria di Gemisto Pletone, uno dei maestri di Marsilio Ficino e un po' il padre di quell'ellenismo di ritorno che animò il nostro Rinascimento. Le sue spoglie riposano nel Tempio Malatestiano di Rimini dopo che Sigismondo Malatesta, nella seconda metà del XV secolo, durante la campagna di Morea, «albero di gelso», il nome medievale con cui il Peloponneso era stato ribattezzato, andò a disseppellirle nel locale cimitero, ormai sotto il controllo dell'impero ottomano. Se Mistrà è ben conservata, di Sparta non c'è più nulla e, più in generale, il Novecento, specie lungo le coste, ha sostituito quello che ancora fino a un secolo prima era un paesaggio aspro e di solitudini di paesini abbandonati a sé stessi, con una modernità edilizia senza ordine né senso che l'ha oltremodo sconciato.

A questa punta estrema del Peloponneso, Ambrogio Borsani ha dedicato un suo nuovo libro, Vagabondi nel Mani (Neri Pozza, pagg. 154, euro 18), che ha il suo nucleo principale nel ripercorrere le tracce di due celebri autori inglesi, Bruce Chatwin e Patrick Leigh Fermor, e del greco Nikos Kazantzakis, l'autore del giustamente famoso Zorba il greco. Di quest'ultimo e dell'ispiratore del suo romanzo, Georgios Zorba, varrà la pena ricordare che nessuno dei due era nato nel Mani, ma il primo a Creta, mentre il secondo proveniva dall'Etolia, che il libro è appunto ambientato a Creta e che nella trasposizione cinematografica che lo consacrò definitivamente, il ruolo di Zorba fu interpretato da Anthony Quinn, che era messicano... I sud del mondo in fondo si equivalgono e la Grecia stessa ha una sua anima profonda che supera i suoi stessi confini interni.

Kazantzakis era un vitalista, imbevuto del pensiero di Nietzsche, il cui patriottismo sconfinava nel nazionalismo, come il suo Capitan Michalis (Crocetti editore) dimostra ampiamente. Era anche un comunista greco, qualsiasi cosa possa significare questa etichetta, perché in lui non c'era traccia di materialismo storico, tantomeno di sottomissione alle regole e ai diktat del Partito o all'accettazione del ruolo dell'intellettuale come semplice cinghia di trasmissione fra questi e la classe operaia. Nato nel 1883, apparteneva a quella generazione le cui certezze su un futuro di pace e di progresso erano andate in frantumi con la Grande guerra e che si ritrovarono a vivere in un'età dove la decadenza stava a significare la fine di un mondo: «Al declino di ogni civiltà le cose finiscono sempre allo stesso modo, in giochi di prestigio di grande maestria - la poesia pura, la musica pura, il pensiero puro -, l'agonia dell'uomo (...). L'uomo si è svuotato, non ha più seme, né sterco, né sangue. Tutte le cose si sono trasformate in parole, tutte le parole in giochi di destrezze musicali. E ora l'ultimo uomo siede all'estremità della sua solitudine e scompone la musica in mute equazioni matematiche». Un po' come per Il postino di Neruda, le cui spiagge cinematografiche sono contese fra Salina e Procida, la danza di Zorba ebbe come cornice, nella realtà, quella maniota di Kalogria, racconta Borsani, che nel romanzo e nel film divenne cretese... Del resto, Kazantzakis scelse come luogo di sepoltura proprio Heraklion, dove era nato. L'epitaffio sulla sua tomba recita: «Non spero in nulla. Non temo nulla. Sono libero».

Nel Mani invece, ci ricorda ancora Borsani, è seppellito Bruce Chatwin e nel Mani visse a lungo Patrick Leigh Fermor, costruendovi anche una bellissima casa, proprio a Kardamyli, che Borsani ha potuto visitare, ora gestita dal Benaki Museum di Atene. Come luogo dove morire però, ormai novantenne, Fermor scelse l'Inghilterra, il che la dice lunga sul contorto rapporto che questo scrittore ebbe con la madrepatria, sempre sfuggita e però per molti versi sempre rincorsa, una sorta di figliol prodigo di cui si temevano e insieme si perdonavano gli eccessi, a patto che fossero compiuti fuori dalla porta di casa...

Leigh Fermor era stato in Grecia ancora negli anni Trenta, Atene e il Monte Athos per la precisione, e poi durante la Seconda guerra mondiale, questa volta paracadutato a Creta, dove fu protagonista del rapimento di un generale tedesco, successivamente trasferito via mare ad Alessandria. L'impresa, epica di per sé, e nella quale il contributo della resistenza greca fu determinante, ebbe per Fermor strascichi dolorosi: durante la sua preparazione aveva involontariamente ucciso uno dei giovani partigiani greci che facevano parte del suo commando e ciò aveva dato vita a una faida familiare nei suoi confronti che rese sempre più sporadici i suoi ritorni a Creta...

Nel Mani Fermor arrivò nel 1950, nel corso di un viaggio dove la Grecia era stata percorsa da un capo all'altro. Ci scrisse un libro sopra, appunto Mani. Viaggi nel Peloponneso, e ci ritornò per stabilirvisi un decennio dopo, nella casa di Kardamyli prima ricordata. Qui nel 1970 venne a trovarlo Bruce Chatwin, che del libro era stato un appassionato lettore. Ci ritornò un quindicennio dopo, ormai malato, mentre stava lavorando a Le vie dei canti e durante una passeggiata in montagna con Fermor capitò davanti alla chiesetta bizantina di Agios Nicholaos. Gli sarebbe piaciuto che le sue ceneri fossero seppellite lì, disse a Fermor, e nel febbraio del 1989 così fu fatto. La chiesetta, ci informa Borsani, è nella frazione di Kato Khora, e non è facile trovarla.

Fra gli altri capitoli che completano Vagabondi nel Mani, ce n'è uno sul saggista inglese Kevin Andrews, autore di The Flight of Ikaros. A Journey into Grece e un altro sul poeta greco Nikiforos Vrettakos, ancora poco noto in Italia... Nell'insieme, Borsani ci dà una panoramica storico-geografica esauriente del territorio, anche se non sempre la qualità della scrittura è di prima sfera: «Alla fine anche per le menti eccelse la colpa è sempre delle donna che provoca l'uomo sculettando»; «Se non ci fosse stata Elena e la guerra di Troia, cosa avrebbe cantato Omero? E tutti gli altri poeti, pittori e musicisti? Sarebbero finiti sotto i ponti».

Ps. Ambrogio Borsani appartiene a quella curiosa categoria di italiani che se incontrano dei greci ancora si vergognano di averli invasi, un po' come se un inglese dovesse continuamente scappellarsi davanti a un indiano per colpa dell'impero che fu. Non si capisce bene se sia per il fastidio di non aver veramente «spezzato le reni alla Grecia» - «tra l'altro non erano nemmeno in grado di fare quello che dicevano» - o se prevalga la soddisfazione per quella che è ritenuta una giusta punizione: «Per fortuna i greci gliele hanno suonate bene».

A Bersani sfugge o non interessa che prima che essere fascisti quei soldati erano italiani, cosa che aveva ben chiaro il marinaio imbarcato sulla Regia nave «Fiume» durante la sfortunata battaglia di Capo Matapan e il cui messaggio in bottiglia approdò un decennio dopo su una spiaggia sarda: «Prego signori date mie notizie alla mia mamma mentre io muoio per la Patria. Marinaio Chirico Francesco da Futani, via Eremiti 1 Salerno. Grazie signori-Italia!».

La pietas è un esercizio difficile, un po' come il coraggio del Manzoni nei Promessi sposi.

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