Il prossimo 21 dicembre sapremo se Nostalgia, di Mario Martone, con Pierfrancesco Favino e Tommaso Ragno, il film selezionato dall'Italia per concorrere agli Oscar, sarà nella short list di quindici titoli che parteciperanno alla selezione finale, e il 14 gennaio dell'anno prossimo scopriremo se il lungometraggio del regista napoletano è fra i cinque nominati per ricevere il premio al miglior film internazionale.
Martone, che aveva già presentato la pellicola a Cannes, è volato a Los Angeles per ricevere l'Ittv Award, premio istituito da Valentina Martelli e Cristina Scognamillo nell'ambito della quarta edizione dell'Ittv Forum & Festival. Martone ne ha approfittato per proporre una serie di proiezioni del film, per testare le reazioni del pubblico oltreoceano che l'ha accolto con favore. Un buon primo passo nella corsa verso gli Oscar. Martone ci crede e ci spera: «Nonostante sia una storia molto locale, ambientata interamente nel rione Sanità di Napoli, contiene in sé valori universali, in cui anche una platea internazionale si può immedesimare. Temi come l'amicizia, il tradimento e l'amore per la propria terra non appartengono a un solo luogo».
Tratto dall'omonimo romanzo del 2016 di Ermanno Rea, riscritto per lo schermo da Ippolita Di Majo, Nostalgia segue il ritorno di Felice nella sua Napoli dopo quarant'anni trascorsi fra Africa e Medioriente. L'intero script è appoggiato sulle spalle di Pierfrancesco Favino che, attraverso un lungo studio, porta in scena un personaggio in costante evoluzione.
«Pierfrancesco è stato un mostro - afferma Martone per interpretare Felice Lasco ha imparato l'arabo, con un accento egiziano. Ha anche elaborato un modo di parlare italiano tipico di chi torna nel nostro Paese dopo molto tempo. La sua è una metamorfosi: all'inizio ha un accento fortemente nordafricano mentre con lo scorrere dei minuti la sua inflessione tornerà a essere quella napoletana, quella che il suo personaggio aveva da ragazzo».
Felice è un uomo che torna a casa dopo decenni, cercando di ritrovare pezzi di sé, le cose però non saranno semplici come lui sognava.
«Si tratta di una storia d'amore e d'amicizia. Di due ragazzi profondamente legati che si perdono e si ritrovano dopo tantissimo tempo. A volte, soprattutto da giovani, è difficile distinguere fra amicizia e amore. Due amici fraterni, entrambi fragili a causa della loro delicata posizione sociale, vengono separati in maniera brusca a causa di un avvenimento che cambierà per sempre le loro vite. Il loro sentimento rimarrà sospeso, per oltre quarant'anni».
Spesso le storie che parlano di nostalgia, lo fanno con un velato ottimismo. In questo caso invece, vengono messi a nudo il lato oscuro di questo sentimento e le difficoltà che si possono incontrare tornando a casa dopo molto tempo. È questo che l'ha spinto a scegliere di riadattare il romanzo di Rea?
«Per me la nostalgia in questo film non è rimpianto. È il passato dietro di noi, il labirinto che abbiamo alle spalle. Ognuno ha fatto delle scelte e non ne ha fatte altre, ha fatto incontri e non ne ha fatti altri. Felice, che è come un personaggio mitologico, dovrebbe guardare sempre avanti e non voltarsi mai verso il labirinto. Lui però lo fa, si gira per guardare indietro e ad attenderlo trova il Minotauro. Lo vedremo sbucciare il suo passato come un frutto».
Il romanzo è stato riadattato apportando alcune modifiche. Per esempio, la scena iniziale nel libro è la scena finale del film. Alcuni dei personaggi della storia originale non sono stati inseriti.
«Abbiamo iniziato a lavorare alla pellicola in piena pandemia, con Ippolita Di Majo abbiamo avuto molto tempo per pensare a quali cambiamenti inserire nel copione. Purtroppo Rea è morto mentre il libro veniva editato, quindi non ci siamo potuti confrontare con lui. Il mio lavoro è trasformare una sceneggiatura in immagini, per noi è stato importante andare fisicamente nel rione Sanità e fare delle foto dei luoghi in cui avremmo fatto le riprese. Non uso mai uno storyboard, preferisco non sapere in anticipo come girerò le mie scene, mi piace lavorare insieme agli attori. Senza di loro non riesco a immaginare in modo astratto come sarà una sequenza».
Dunque preferisce modificare le cose in base a quello che vede davanti a sé?
«Esatto. Per esempio nel libro la casa di Oreste, la nemesi di Felice, è lussuosa, piena di oggetti costosi. Un po' come ci siamo abituati a vedere in Gomorra. Io invece, passeggiando per il rione, ho visto un'abitazione decadente e me ne sono innamorato. Ho voluto che quella fosse la dimora del mio antagonista, per rispecchiare la devastazione interiore che sta vivendo».
In che modo ha preparato i suoi protagonisti?
«Ho un background teatrale, sono abituato a lavorare a tavolino con i miei attori. In questo caso però, per una delle scene principali, quella in cui i due vecchi amici si incontrano dopo oltre quarant'anni, ho voluto che Favino e Ragno non si vedessero prima. In questo modo si è creata una tensione reale fra i due, come una specie di imbarazzo. Quando si sono visti per la prima volta, ho fatto partire le telecamere e girato tutta la scena per intero. Il settanta per cento di quello che vedete nel film è frutto del primo ciak. Ci sono diverse parti di quella sequenza improvvisate dagli attori. Tutto il nostro lavoro è fra verità e recitazione».
La verità è un tema ricorrente.
«Anche diversi personaggi marginali del film sono stati scelti fra gli abitanti del rione. Per esempio i ragazzi nella basilica, sono i veri giovani che il parroco di quartiere ha salvato dalla camorra. Addirittura ci sono scene che abbiamo realmente girato nelle case del rione, facendo recitare le famiglie che ci vivevano dentro».
Quando sono arrivati i titoli di coda il pubblico era
visibilmente commosso. Il merito è di quei valori universali di cui parlava?«Credo sia così. Quando abbiamo girato l'ultima scena persino noi, tutti quanti, dai tecnici, a Favino e a me, siamo rimasti senza parole».
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