Nella storia mai scritta di Edoardo la chiave del giallo di casa Agnelli

Un'inchiesta tv a caccia di risposte. Nel 2000 il figlio dell’Avvocato cadde dal viadotto di Fossano Dieci anni di misteri, quesiti irrisolti e voci: fu omicidio o suicidio? Era solitario, e si sentì abbandonato quando il padre nominò erede John Elkann. Tra le ipotesi addirittura l’assassinio religioso, un complotto sionista

Nella storia mai scritta di Edoardo la chiave del giallo di casa Agnelli

Edoardo Agnelli decise di farsi conoscere in una gior­nata grigia e fredda. Era metà novembre del duemila, l’an­no atteso, l’anno della svolta. Dieci anni dopo, Edoardo Agnelli resta una leggenda, un’ombra che vola da un via­dotto, finisce di vivere e inco­mincia un’altra storia, quella del mistero. Non fu suicidio. Fu omicidio. Non fu un gesto improvviso ma la conclusio­ne di un’esistenza infelice. Non fu un atto inconsulto ma una teatrale esecuzione. Gianni Agnelli arrivò appog­giandosi curvo a un bastone, come un vecchio qualunque; aveva il volto di cera, nessu­no, tranne lui, insieme con il questore di Torino, ebbe la fa­coltà di scendere in quel pre­cipizio di settanta metri, tra le pietre umide dello Stura, per vedere quello che restava di un corpo bellissimo, di un ragazzo di quarantasei anni, di un uomo che non aveva mai vissuto veramente. Dieci anni di voci fastidiose e drammatiche, addirittura di un assassinio religioso, del­la nuvola nera dell’islam, di un complotto sionista, Mah­di, era il suo nome dopo la conversione, era stato giusti­ziato, una vendetta prepara­ta nei minimi dettagli per far intendere, invece, alla scelta suicida del figlio della fami­glia più illustre d’Italia. Edo­ardo, si disse e fu scritto, la­sciò il motore acceso della sua vettura parcheggiata su quel lungo ponte che provo­ca l’angoscia agli occhi; Edo­ardo, si disse e fu scritto, pre­parò accuratamente i propri documenti esponendoli sul cruscotto, perché si capisse, si leggesse, chi fosse, chi fu, dopo averlo invece trascura­to, compatito, sopportato, evitato: «ecco, leggete, que­sto sono io, adesso lo sapete». Edoardo non esibiva il casa­to, viveva solitario ma non so­lo, parlava di filosofia e di sto­ria, anche il tono del suo dire era diverso da quello degli al­tri componenti il quadro del­la dinastia. Qualcuno ricor­dò, in modo malefico, che un giorno lontano, quando Edo­ardo aveva soltanto dieci an­ni, suo padre, l’Avvocato, gli avesse promesso di portarlo allo stadio per vedere la parti­ta di pallone e la Juventus, la squadra di football che Gian­ni Agnelli definiva «qualcosa per la domenica». Mentre la tata acconciava il signorino, il padre, insieme con il conte Cinzano, salì in vettura e se ne andò allo stadio, dimenti­cando il bambino pettinato. Forse è una leggenda, come altre che nascondono, quasi un foglio di cellophane, la fi­gura di un personaggio bru­ciato da una vita veloce che lo portò a frequentare luoghi e scienze diverse, il buddismo e il francescanesimo, di sicu­ro la maledetta droga che lo portò all’isolamento non sol­tanto fisico. Quando suo padre lo tagliò fuori dall’eredità d’impresa non ebbe smorfie, il nome pronunciato dell’erede a gui­dare la Fabbrica Automobili Italiane Torino (così usava di­re l’Avvocato) fu quello di Giovanni Alberto, il cugino fi­glio di zio Umberto. Giovan­ni era un amico, oltre che un parente, Edoardo intuì co­munque che la scelta non po­teva­essere letta come una of­fesa profonda. Quando, mor­to Giovanni di cancro feroce e precoce, Gianni Agnelli no­minò John Elkann detto Yaki, allora Edoardo si sentì solo come quel giorno della sua in­­fanzia, l’automobile era parti­ta e lui era rimasto ad osserva­re il giardino e il silenzio. Il mistero resiste, conforta­to e illustrato da libri, da testi­monianze, da inchieste, dal­le lettere affettuose e delicate di Edoardo alla sorella Mar­gherita, righe e parole di un malessere di vita, e poi i di­sturbi provocati da una cura dimagrante aggressiva; il mi­stero resiste nel ricordo di quei giorni di novembre, la se­poltura affrettata, la mancan­za dell’autopsia, l’assenza di impronte digitali sulle portie­re della Croma con il motore acceso su quel viadotto di Fossano, quasi si volesse can­cellare, sulla lavagna della fa­miglia e della storia del Pae­se, un nome senza un cogno­me. Edoardo se ne andò senza immaginare che altri precipi­zi avrebbero sconvolto la vita della sua famiglia, la morte del patriarca, le liti eredita­rie, le storie drammatiche di cronaca.

O forse lo aveva intu­­ito, lasciando la sua dimora, Villa Bona, in quella mattina grigia e fredda di novembre. Giovedì prossimo Giovanni Minoli ripercorrerà questi dieci anni e quel viadotto, con nuovi interrogativi e nuo­ve risposte ne La storia siamo noi . La storia che non è stata di Edoardo.

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