Il nemico in casa

Cosa si può scrivere ancora sul conflitto israelo-palestinese dopo l’ennesimo fatto di sangue di Beit Hanoun, a nord della Striscia di Gaza? Anzitutto che il governo israeliano e il suo esercito hanno ripetuto qui gli errori politici e psicologici che hanno fatto loro perdere la guerra nel Libano. Inoltre che, una volta di più, «per errore», certamente non voluto, l’uso incontrollato delle armi ha dato ai peggiori nemici di Israele la scusa per silurare quell’ombra di speranza che sembrava affiorare dal tentativo di Hamas e di Al Fatah di mettersi d’accordo per cercare di dare alla Palestina un governo di unità nazionale capace (forse) di mettere fine a un’anarchia che sta aprendo a Gaza le porte alla trasformazione del primo territorio palestinese evacuato volontariamente da Israele in una base di Al Qaida. Infine che con questo «errore» il governo Olmert sta mettendo in pericolo la fragile pace con la Giordania e con l’Egitto nel momento in cui l’alleato americano Bush viene sconfitto.
Una volta di più appare chiaro che nulla in politica è più pericoloso di governanti deboli che con gesti militari si aggrappano a un potere da cui l’enorme maggioranza del Paese li vorrebbe vedere cacciati. La vera grande vittima politica israeliana della guerra nel Libano (di cui il lancio quotidiano dei razzi palestinesi da Gaza contro il territorio israeliano è una diretta continuazione) è stata il primo governo israeliano che dopo 40 anni intendeva mettere fine alla colonizzazione delle zone palestinesi occupate nel 1967 e dare inizio al risanamento politico e morale del Paese.
Risanamento ora rinviato, ma non necessariamente abbandonato perché l’eccidio di Beit Hanoun farà aumentare la volontà della società civile israeliana - l’unica democratica nel Medio Oriente - di sbarazzarsi di una dirigenza che disonora, avvilisce e indebolisce un Paese che debole non è, nonostante le apparenze. La sua popolazione per il 65 per cento vuole coesistere in pace con i palestinesi e comprende che uno Stato palestinese è diventato oggi una necessità strategica per lo Stato ebraico se vuole avere un vicino disposto a non trasformarsi in una base permanente di terrorismo.
La cosa peggiore che ora potrebbe succedere è che Hamas e il presidente Abu Mazen - con l’aiuto degli Hezbollah, della Siria e dell’Iran - mettano in atto la minaccia di riprendere gli attacchi suicidi e intensificare il lancio dei missili contro Israele. Questo servirebbe solo a rinsaldare in Israele il movimento sionista, che oggi non è altro se non la volontà degli ebrei di far pagare a caro prezzo ogni nuovo tentativo di distruzione da parte dei loro nemici, e ad allargare il conflitto palestinese, trasformandolo in un conflitto internazionale di inimmaginabili conseguenze, che distruggerebbe ogni speranza palestinese di ottenere finalmente la propria sovranità.


Se c’è un barlume di luce in questa situazione che sembra oggi sempre più tempestosa, oscura e priva di soluzione, esso sta nel fatto che il tempo degli uomini non è quello né degli Stati né quello di Dio. E che, nonostante tutta la potenza degli odi, la storia insegna che è sempre la guerra a creare la pace, mentre è l’illusione della pace che spesso fomenta la guerra.

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