Per 35 anni, Roger Abravanel (classe 1946) è stato uno degli uomini chiave della McKinsey, la multinazionale leader della consulenza manageriale. Un punto di osservazione unico, a cui si sono aggiunti gli incarichi occupati solo nell'ultimo decennio: Abravanel ha fatto parte tra l'altro dei consigli d'amministrazione di Luxottica, Cofide, Teva, Admiral, Bnl/Bnp, Genenta, Phoenix.
Oggi con i suoi libri e saggi anima il dibattito sui problemi del Paese. L'ultimo, s'intitola Aristocrazia 2.0. Una nuova élite per salvare l'Italia. Sgombriamo subito il campo da malintesi: qui non solo non c'entra il sangue blu e l'ereditarietà di privilegi, ma, anzi, si esprime l'urgenza di mettere le ali al capitale umano di talento e di qualità per un ricambio meritocratico nella classe dirigente, imprenditoriale e politica. Abravanel va alla sostanza e dice senza troppi giri di parole che «l'Italia ha bisogno di un nuovo capitalismo che sostituisca la vecchia classe dirigente 1.0 alleata con l'egualitarismo, il familismo e la furbizia anti-regole».
Suppongo che il titolo «Aristocrazia 2.0» abbia fatto storcere il naso a qualcuno.
«Io vado alla radice del termine aristocrazia che vuol dire governo dei migliori. Dico che abbiamo bisogno di un'élite di qualità che possa trascinare le masse, penso a un'aristocrazia forte del proprio talento e non di titoli nobiliari e neppure di aziende o patrimoni immobiliari. Oggi la nostra economia non crea le opportunità per questo tipo di capitale umano. Non abbiamo approfittato delle transizioni economiche dell'ultimo mezzo secolo, siamo rimasti con il vecchio paradigma di piccole e medie imprese manifatturiere e piccole partite Iva, non sono state create le imprese che offrono impieghi di alto valore. I nostri laureati sono pochi e mal pagati».
Lei sostiene che l'incapacità di evolvere blocca il Paese ormai da 40 e non da 20 anni come in genere si osserva. E sono tre i fattori responsabili di questa situazione. Parliamone.
«Si parte da un capitalismo familista, che bisogna distinguere da famigliare, causa prima del fatto che le imprese rimangono piccole. E ancora, mancano le università di eccellenza nella ricerca e dunque motori dell'economia della conoscenza. Poi abbiamo una pubblica amministrazione paralizzata, e non dai fannulloni, bensì da un potere giuridico senza precedenti».
Il libro è uscito a gennaio. Che riscontri ha avuto?
«Ha avuto moltissime recensioni, è stato primo in classifica per quanto riguarda i testi di economia politica. Ho fatto più di 40 webinar, ne ho parlato con la cosiddetta élite, penso ai 700 Alumni della Bocconi e del Politecnico».
Però non sembra del tutto soddisfatto. Qualcosa la preoccupa
«In questi dibattiti sono rimasto sorpreso dalla mancata comprensione dei veri problemi del Paese. Per esempio, si pensa ancora che le industriose piccole e medie imprese del Nord siano bloccate da una burocrazia inefficiente e corrotta e che basti portare il Sud a livello del Nord e il problema è risolto. Purtroppo il Nord si è fermato perché si è verificata una ecatombe di grandi imprese industriali che non sono riuscite a saltare sul treno della economia della conoscenza. Senza una chiara diagnosi del problema, le soluzioni non si troveranno».
Dalla pubblicazione del libro però qualche cosa è cambiato. La presenza di Mario Draghi la rende più ottimista?
«Per Mario Draghi la sfida di oggi è molto diversa da quella che ha affrontato alla Banca Centrale Europea, quando è bastato dire Whatever it takes e grazie alla sua autorevolezza ha scoraggiato gli speculatori della vendita allo scoperto e salvato l'Euro. È ben altro quello che ci vuole per il rilancio dell'Italia».
La convince il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza?
«Darà certamente un impulso di crescita economica. È fatto bene, spiega nel dettaglio come si spenderanno i soldi pubblici. Il punto però è un altro. Non saranno gli investimenti pubblici a farci abbracciare l'economia della conoscenza accelerata dal Covid. Chi crea crescita, Pil e lavori ad alto valore sono già oggi le big Tech e le grandissime aziende che dopo il Covid sapranno sfruttare il digitale per essere ancora più vincenti».
E sul fronte della transizione ecologica?
«È una chiara priorità e nessuno meglio dell'amico Roberto Cingolani può guidarla. Ma ciò che contano sono gli investimenti privati e la crescita di colossi come la francese Veolia. Ci vogliono incentivi per grandi aziende private anche multinazionali. Di questo il Pnrr non si doveva occupare».
Più di 200 miliardi non bastano per far ripartire un'economia paralizzata da 40 anni. È questo il punto da cui dobbiamo partire?
«Senza dubbio, con lo Stato impegnato a investire in infrastrutture, in un primo tempo il Pil aumenterà. Ma alla fine ho paura che ci ritroveremo con un debito altissimo e zero crescita. Già abbiamo sperimentato una droga di denaro pubblico negli anni Ottanta, con il debito nazionale che passò dal 25% al 100% del Pil. Nel frattempo per 15 anni l'Italia continuò ad arricchirsi ma con una tale spesa pubblica che poi il conto arrivò nel 1993».
A fronte delle mille e passa proposte per far rinascere il Paese, lei ne offre tre. La prima.
«Con degli incentivi bisogna attrarre investitori di talento, i migliori fondi private equity e venture capital, capaci di fare crescere le imprese dell'economia della conoscenza. Temo invece una statalizzazione della economia e distruzione di quel poco di concorrenza che c'è con salvataggi e sussidi».
La seconda strada coinvolge ricerca e università.
«Per le quali sono in arrivo miliardi. I fondi, però, non dovrebbero essere destinati a tutti indiscriminatamente. L'ETH di Zurigo, tra le eccellenze del pianeta, riceve 1,1 miliardi di fondi pubblici contro i 200 milioni di euro del Politecnico di Milano che è la migliore università italiana, ma la numero 143 del mondo. Da noi sarebbe successo il finimondo se Mario Draghi avesse destinato le risorse ai nostri migliori atenei».
Con la terza proposta si entra nel mondo della giustizia.
«Il problema della nostra pubblica amministrazione è la paralisi decisionale che deriva da uno strapotere giuridico autoreferenziale che provoca nei cittadini una totale sfiducia per cui si crede che lo Stato italiano sia più corrotto di quello russo o nigeriano».
Venendo alla sua storia: lei è stato un ragazzo prodigio. A 16 anni finisce il liceo e a 21 il Politecnico di Milano laureandosi in Ingegneria Chimica. Perché tutta questa fretta?
«Volevo essere indipendente economicamente dato che durante gli studi mi sono trovato improvvisamente figlio di profughi e con pochissimi mezzi. Sono nato e cresciuto in Libia, in una famiglia ebrea. Papà mi iscrisse alle scuole dei Fratelli Cristiani perché a Tripoli erano quelle che più di tutte spingevano verso eccellenza e meritocrazia. È lì che si sono formati i miei valori. A 16 anni mi ero iscritto alla Sapienza di Roma ma papà riteneva che non fosse sufficientemente dura e così mi suggerì il Politecnico di Milano.
Un padre esigente. Troppo?
«Era nato poverissimo, aveva perso la mamma da piccolo e suo padre era malato. Pur essendo geniale non poté andare all'università. A 17 anni già curava la contabilità di tre società. Il proprietario di una di queste, nel mondo della fotografia, non aveva figli ed era affezionato a questo giovane così promettente e così gliela lasciò in eredità. Partì con quella bottega costruendo un grande business con la Kodak che allora era un colosso globale. Divenne molto ricco».
Correvano gli anni?
«Anni di prosperità per la Libia e per gli italiani che ci vivevano, un po' meno per i libici. Poi con l'arrivo di Gheddafi, nel 1969, da un giorno all'altro papà perse tutto. Veniva da una antica famiglia ebrea sefardita. Un nostro avo Don Itzahack Abravanel, filosofo ed esegeta, aveva convinto i reali di Spagna a ritirare il decreto di Alhambra del 1492 e a cancellare l'espulsione degli Ebrei dalla Spagna. Non ebbe successo e, nonostante che i regnanti avrebbero fatto un'eccezione per lui a condizione che si convertisse, rifiutò e così venne a Napoli, poi Cipro e infine Venezia, dove è sepolto. Un ramo della famiglia finì in Turchia e quindi in Libia quando l'impero ottomano la conquistò. Mamma invece era italiana, ebrea».
Che lingua si parlava, dunque, in casa Abravanel?
«L'italiano, ma anche un po' di spagnolo e francese».
Accennava alla povertà in cui piombò la sua famiglia. Per non parlare dell'antisemitismo nella Libia di allora.
«Infatti se ne andarono tutti gli ebrei, come peraltro il milione di profughi da altri paesi arabi, un esodo silenzioso di cui nessuno parla. I miei vennero in Italia e la mia laurea si rivelò l'unica vera fonte di reddito. Per questo avevo tanta fretta di laurearmi e lavorare. Da quel momento mi sono sempre occupato dei miei genitori. Però, per assurdo, ho ringraziato Gheddafi nel mio primo saggio, Meritocrazia».
Perché?
«Senza il golpe, la ditta di mio padre avrebbe continuato a prosperare quindi molto probabilmente sarei entrato nell'impresa di famiglia, anziché costruirmi un percorso tutto mio basato sulle mie capacità e non su quelle di mio padre».
Quali le tappe prima dell'ingresso in McKinsey?
«Intanto il militare. Poi avevo fatto il ricercatore, ma non valevo granché. La svolta avvenne quando una piccola azienda che faceva condizionamento d'aria vide in me qualcosa e mi chiese di collaborare. Erano gli anni Settanta e le automobili italiane ancora non avevano l'aria condizionata. Con un collega perito riuscii a fare funzionare una valvola che risolveva il problema. A una fiera di Filadelfia feci una joint venture con una tale Murray Corporation, avevo 23 anni. Lì capii che mi piaceva veramente il business e il mondo delle aziende».
Quale la lezione in McKinsey?
«Alla Mckinsey prendevano i migliori laureati delle migliori università e la selezione era durissima. La competizione è un po' il sale della società. Lo slogan è: up or out, suppergiù o cresci o esci, quindi o diventi partner quindi senior partner o devi lasciare. Ho imparato cosa vuol dire vivere in una organizzazione meritocratica dove si ricerca l'eccellenza e l'ambizione, e dove è chiaro il concetto che senza valori e rispetto delle regole la meritocrazia non può nascere. Che senso ha per un giovane impegnarsi nello studio e nel lavoro se crede che la competizione è sleale?».
Quali i valori imprescindibili?
«La valorizzazione delle persone che sono con te. Il principio per cui è un dovere soddisfare il proprio cliente, se ti paga tanti soldi devi dargli un ritorno reale. L'idea di consentire a tutti di dissentire. La trasparenza dei processi di valutazione del merito».
Vittorio Colao è un ex McKinsey. Stesso discorso per Corrado Passera, Alessandro Profumo e Paolo Scaroni. Loro se ne sono andati. Perché lei è rimasto in McKinsey?
«Ho avuto anche io le mie offerte come amministratore delegato, nel private equity e nelle banche d'affari. Però sono sempre stato attratto dall'idea di fare il consulente al top. Non sono sensibile alla molla di potere o denaro. L'idea di avere 100 milapersone che dipendono da me non mi ha mai affascinato. Semmai sono sempre stato attratto dall'idea di affrontare problemi complicati, di concettualizzarli, tradurli e scriverne, lavorando insieme a persone eccellenti».
Da qui la serie di libri
«Il ricavato dei quali va in beneficenza per un serie di borse di studio».
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