Quattro anni in Africa. Elisa Terranova è nata nel 1980 in Sicilia, balcone di terra che si protende verso il Continente Nero. E forse è già un segno del destino. Nel 2006 si laurea in psicologia con una tesi in etnoempatia. «Ho fatto una ricerca su quanto si riesce a empatizzare con gruppi etnici diversi dal proprio ». Pochi mesi dopo parte per la Tanzania. Scoppia l'amore per l'Africa. Nessuno parla inglese ma lei, Elisa dalla provincia di Caltanissetta, impara lo swahili. Torna in Italia per il tirocinio e si porta in valigia il mal d'Africa. Finisce il suo stage e scappa nel continente nero. La incontriamo all'Alice Village, a pochi chilometri da Nairobi: non è solo una volontaria, sembra di vedere una giovane mamma di 150 piccoli orfani.
Come mai questa voglia d'Africa?
«Durante l'anno in Tanzania ho capito il senso della morte. Qui da noi non riusciamo ad accettarla. In Africa è una parte tollerata della vita, anche perché sono costretti a fare i conti con la morte quotidianamente. Dopo la Tanzania c'è il Kenya. Nel 2007 ho aderito al servizio volontario europeo e sono venuta in Kenya, a Mukuru. Sono andata ad abitare in una casa vicino allo slum con una famiglia keniota che ancora oggi considero la mia seconda famiglia ».
E poi arriva Alice for Children.
«Sì, ho mandato il mio curriculum ed è iniziata questa avventura.
Ho seguito tutta la nascita di questo villaggio.
E la tua famiglia italiana come ha preso le tue scelte? «Malissimo, non sono mai riusciti a capirle. Ogni volta che vado a casa mi chiedono quando mi decido a tornare definitivamente».
Non hanno tutti i torti, non ti manca niente dell'Italia?
«Ma certo, mi manca terribilmente non vedere crescere i miei nipoti e ho nostalgia della mia famiglia. Sento anche l'assenza degli amici più cari, quelli veri. Qui è difficile creare dei rapporti sinceri, i kenioti guardano molto al colore della pelle».
Al di là della prosopopea terzomondista sono razzisti al contrario? «In un certo senso sì. Qui c'è sempre il dubbio che diventino amici di un bianco per poterne ricavare un qualche vantaggio economico. È molto difficile costruire amicizie».
E quindi non ti viene voglia di tornare a casa?
«Sì, ogni tanto mi capita di pensarci».
Elisa, non ti sembra che il volontariato sia un aiuto minimo dato a un continente gigantesco: una goccia nel mare.
«Io credo che non ci si possa riprendere solo con gli aiuti esterni».
Un po' come la storia del pesce. È inutile regalare un pesce, molto meglio insegnare a pescare.
«Esattamente. Non serve a nulla dare soldi se non si insegna a poter camminare sulle proprie gambe. Il problema è che un popolo che per secoli ha vissuto in schiavitù deve cambiare anche la mentalità per poter ripartire».
Insomma, anche tu sei pessimista...
«Non proprio pessimista, spero che l'Occidente cambi approccio. A volte sembra che abbia interesse a mantenere il continente africano in questo stato di povertà, dovremmo aiutarli a essere autosufficienti».
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