Un noir che spiazza e ben interpretato

Siamo nella Boston degli anni 60, dove la giovane Eileen conduce una vita monotona, lavorando come segretaria in un riformatorio minorile e prendendosi cura del padre alcolista

Un noir che spiazza e ben interpretato
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Siamo nella Boston degli anni 60, dove la giovane Eileen conduce una vita monotona, lavorando come segretaria in un riformatorio minorile e prendendosi cura del padre alcolista. Le cose cambiano con l'arrivo della nuova psicologa del carcere, Rebecca, brillante e disinvolta, che esercita un fascino magnetico anche su Eileen. La loro amicizia prende, però, una piega pericolosa quando Rebecca le rivela un oscuro segreto.

Tratto dall'omonimo romanzo di Ottessa Moshfegh (Mondadori), è il secondo film «in costume» del regista britannico William Oldroyd (Lady Macbeth). Che qui, complice la direttrice della fotografia Ari Wegner e la sua palette di colori sbiaditi, gira come se fossimo in un «vero» film degli anni '60, con una pasta che richiama proprio quella della pellicola e con il tipico font dei titoli di testa e di coda insieme al logo d'epoca di Universal. MA a rendere tutto più torbido del cinema di quegli anni, ci pensa la storia e, soprattutto, le interpreti, la neozelandese Thomasin McKenzie (Jojo Rabbit e Ultima notte a Soho), molto sorprendente nel ruolo della protagonista finta timida e Anne Hathaway, che riempie lo schermo con un immaginario da femme fatale. E il suo nome, Rebecca, è già tutto un programma

Il regista, però, è molto più interessato a esplorare i lati oscuri della mente di Eileen, piuttosto che inserire riferimenti (omo)sessuali soltanto evocati.

Sono le due prigioni esistenziali in cui è rinchiusa la protagonista: quella lavorativa in carcere e quella casalinga, con il padre alcolizzato e con il grilletto facile (l'ottimo caratterista Shea Whigham), a dare un senso originale a un film che, all'improvviso e in modo spiazzante, si trasforma in un noir dai contorni malati, quasi pulp.

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