Quando avevo tre o quattro anni parliamo degli anni Cinquanta - mio padre lavorava in una segheria di marmo e mi confezionò un giocattolo, il primo e unico che ricordi. Era una enorme spada di ferro, con la punta dipinta color rosso sangue. Il babbo non era pazzo e larma non era pericolosa, per il semplice motivo che non riuscivo (...)
(...) neanche a sollevarla. La trascinai per strada e per casa finché la punta si consumò. Quanto ai giochi con i miei genitori, entrambi erano troppo occupati a lavorare per dedicarsi a attività simili. Si giocava in piazza, con gli altri bambini, o al massimo alloratorio. Ma ricordo che anche nelle famiglie più benestanti landazzo era quello.
Le cose non devono essere cambiate molto con la generazione successiva, anzi devono essere peggiorate. Avendo un figlio di quattro anni, frequento un sacco di trenta-quarantenni con bambini piccoli e tutti tutti hanno qualcosa da rimproverare ai genitori su come sono stati educati; meglio, non educati: affidati a nonni o a baby sitter, pare che pochissimi abbiamo potuto davvero godere della compagnia della mamma e tantomeno del papà, specialmente nel gioco, considerato dagli adulti unattività noiosa, una perdita di tempo.
Chi ha figli piccoli oggi, invece, ammaestrato da teorie pedagogiche abbondantemente divulgate, sa che il gioco è fondamentale nello sviluppo del bambino. Per questo la ricerca inglese da cui prende spunto questo articolo lancia un allarme che però sembra la scoperta dellacqua calda: metà dei bambini vorrebbe una migliore qualità del tempo passato con la famiglia (ovvero gioco, che è il loro lavoro), però un genitore su cinque non sa o ha dimenticato come si fa a giocare con un bambino.
La ricetta, anche questa dellacqua calda, è che il gioco deve essere educativo, quindi ispirare creatività, integrazione e comunicazione. Sono concetti talmente diffusi e, ormai, ovvi, che i bravi genitori si affannano a cercare in negozi appositi «giochi intelligenti» che educhino a questo e a quello. Si parte dalle macchinette parlanti che insegnano lalfabeto e i numeri, magari in due lingue, e si arriva fatalmente alla play station e al computer, dove il bimbo/ragazzo smette di colpo di essere allievo e diventa maestro dei genitori.
La mia quasi quadriennale esperienza di padre adultissimo (ma che può passare molto tempo con il prezioso pargolo) è che le quattro parole chiave educazione-creatività-integrazione-comunicazione vanno sì tenute presenti, ma dimenticate sullo sfondo del gioco con il bambino in carne e ossa che ti sta davanti. Che è tuo, e che anche per questo è diverso da tutti gli altri.
Di creatività, qualsiasi pupo ne ha da vendere e può insegnartela, basta seguirlo e collaborare. Per esempio, il nostro gioco del momento (cambiano continuamente) è gonfiare palloncini, lasciare di colpo limboccatura e lasciarli svolazzare rabbiosi per la stanza. La gara di creatività sta nel descrivere insieme, con fantasie sempre maggiori, la traiettoria del palloncino, dallelicottero pazzo al canguro volante. Importante è cedere subito alla noia o alla ripetitività del pupo, del tutto imprevedibili: si possono cambiare venti giochi in unora, o farne uno per tre ore (è il caso peggiore).
Tutto il resto, integrazione/comunicazione, viene di conseguenza. Solo un bambino lasciato libero di sviluppare con i tempi e i modi suoi la propria creatività sarà capace di entrambe. Nicola Giordano Guerri, per esempio, è nella fase della scoperta della sua forza fisica, che si traduce in lotta. Così ci picchiamo per buona parte del giorno (occorre precisare che vince sempre lui, anche se mai con troppa facilità?).
Insomma, ci voleva proprio una ricerca inglese per spiegarci che per giocare con i propri figli occorre tornare bambini? Sapendo però di essere adulti.
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