NON SI IMPICCANO LE IDEE A UNA PAROLA

La politica ha un problema di parole. Prendete questa storia delle gabbie salariali, è chiaro che se uno le chiama così ti riportano agli anni ’50, a qualcosa di vecchio, ammuffito, sepolto, abbandonato. E allora il signor Bonanni della Cisl parla di ritorno all’Unione Sovietica, che da queste parti comunque non c’è mai stata, gli operai del Sud pensano che qualcuno sta lì con le forbici a tagliare i loro stipendi, già all’osso, i politici si preoccupano di perdere voti, tutti fanno la voce grossa e qualcuno ci marcia evocando fame e malattie, tanto qualche Savonarola in giro non manca mai. Quella che doveva essere una mossa per rendere il costo del lavoro meno stagnante, una sorta di rivoluzione contro la dittatura dei contratti nazionali, un modo per legare il salario alla produttività e dare un po’ di respiro alle buste paga di chi lavora a Torino, a Milano o a Roma, dove il costo della vita è senza dubbio più alto, diventa invece una restaurazione, un tuffo nel passato. La cosa strana di questa storia è che poi tutti dicono: sì, bisogna difendere i salari reali. Oppure: sì, bisogna dare più spazio alla contrattazione aziendale e territoriale. Basta chiamare le cose con un nome diverso? Basta dire, come fa Brunetta, la parola magica federalismo? Federalismo dei salari? Forse sì. Ed è come se in questo Paese le riforme si incagliassero sullo scoglio di qualche parola, un eterno gioco di parole tabù, parole che non si possono dire, parole maledette, parole che fanno mettere mano alla pistola al solito esercito di benpensanti. Bum. Al minimo movimento spara. Il risultato è che tutto il dibattito politico gira intorno ai vocaboli. Non ci sono più casi da risolvere, ma parole da spianare.
Stessa storia con le ronde. Uno dei temi di cui si chiacchiera di più è la sicurezza. La paura la leggi negli occhi dei genitori che marcano a uomo i propri bambini, nelle notti isolate dei casolari di campagna, delle bifamiliari fuori mano, nelle storie di bande a mano armata che saccheggiano le periferie delle città, degli stupri sempre più centrali, sotto gli androni di un condominio o negli angoli bui delle stazioni. La paura è questa insicurezza che va da Nord a Sud, attraversa le varie Gomorra, Stato dentro lo Stato, e che trova rifugio persino nei paesini di montagna. È la stessa paura che fabbrica il cemento per i muri del razzismo e dell’intolleranza. È la paura dei cani da guardia e di un’esistenza spietata delle mille telecamere ad ogni angolo di strada. La gente, quando parla, sembra ossessionata dal pericolo imminente, da qualcosa che ti arriva alle spalle e ti lascia senza vita, senza anima, senza portafoglio. È da qui, da questa paura, che nasce l’idea delle guardie civiche, dei liberi cittadini dei comuni che si organizzano per difendere le strade della propria città. Non sono armati, guardano soltanto. Fanno luce, come le insegne dei negozi che rendono meno buia la notte. Magari non risolvono il problema, ma un po’ tutti pensano che una mano di aiuto la possono dare. Come le chiamiamo? Ronde. E qui la fantasia si scatena. Sotto i giubbotti dei carabinieri in pensione spuntano camicie nere. Le ronde diventano squadracce fasciste, i bravi di don Rodrigo, i giustizieri di Charles Bronson, i cappucci bianchi del Ku Klux Klan. La notte si tinge di regime. E tutti i discorsi si aggrovigliano sul nulla. Non si discute più di sicurezza, ma di fantapolitica. Le guardie civiche possono far sorridere, come i boy scout, ma tutte queste elucubrazioni sul regime sono irritanti. È lo starnazzo di troppa gente che non ha mai visto in faccia una dittatura. Regime, regime, regime, ma le ronde, poi, le fanno anche i sindaci di sinistra, solo che le chiamano in un altro modo. Teatro dell’assurdo.
È colpa di questa epoca di transizione, dove si naviga a vista, senza mappe e bussola. Ed è come se davanti ai nuovi problemi la politica cercasse rifugio nelle vecchie parole del Novecento. Un certo senso pratico fa intravedere la soluzione, ma il linguaggio resta quello del passato, l’unico disponibile visto che quello nuovo annaspa, fatica a trovare concetti. Non ci resta che dirlo ancora una volta, mancano i cartografi e senza carte, senza confini, senza orientamento, si finisce per smarrire anche le parole. Ci si aggrappa a qualcosa che ormai, da anni, non ha più senso. Non ci sono vocabolari e qualcuno finge di non capire. È facile giocare sugli equivoci. La guerra delle parole è diventato il modo più semplice per fare polemica, non solo di mezz’estate. Berlusconi, qualche giorno fa, ha detto che la Rai non deve attaccare maggioranza e opposizione. Nulla di scandaloso. Il servizio pubblico, pagato da tutti, non può essere partigiano. È un concetto banale. Ma queste parole sono state tagliate e rimodellate. Via l’opposizione, via attaccare ed è rimasto che la Rai non deve trasmettere notizie contrarie al governo.

Ed ecco che rispunta subito il regime. La parola del vecchio Novecento che qualcuno sta facendo di tutto per recuperare. La vischiosità del passato è l’ultima risorsa dei sacerdoti del Novecento. E il futuro resta imbrigliato in una ragnatela di parole.

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