Non si scappa, i grandi artisti sono tutti cattolici (a modo loro)

È un campionario di campioni del Novecento. Da Chesterton a Tolkien, da Graham Greene a Conan Doyle, da Jack Kerouac a Flannery O'Connor e Evelyn Waugh, la squadra teme pochi rivali

Non si scappa, i grandi artisti sono tutti cattolici (a modo loro)
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Nel marzo del 2002, Giovanni Raboni, poeta milanese, traduttore di Proust, Baudelaire e Céline, di famiglia cattolica, scrisse sul Corriere della Sera che «I grandi scrittori» sono «tutti di destra» (la polemica è stata ripresa in un librino edito da De Piante nel 2022, con testi, a supporto, di Luca Daino e Franco Cardini). Ne nacquero discussioni infinite - infine, aveva ragione Raboni. Perfezionando il concetto, dovremmo dire che «I grandi scrittori sono tutti cattolici». Prima di noi ci ha pensato, qualche anno fa, il Catholic Herald, redigendo una lista di scrittori cattolici o diversamente influenzati dal cattolicesimo. È un campionario di campioni del Novecento. Da Chesterton a Tolkien, da Graham Greene a Conan Doyle, da Jack Kerouac a Flannery O'Connor e Evelyn Waugh, la squadra teme pochi rivali. I redattori della rivista hanno squadernato il cattolicesimo, più o meno esplicito, nei libri di Joyce e di Thomas Pynchon, di Hemingway e di Fitzgerald, di Don DeLillo e di Cormac McCarthy (figlio di irlandesi cattolici, fu chierichetto presso la chiesa dell'Immacolata Concezione di Knoxville, Tennessee). Se allarghiamo il campo ad altri Paesi - vado con il rosario: Bernanos, Claudel, Julien Green, Marcel Jouhandeau, Sigrid Undset, Heinrich Böll, Hermann Broch... - l'assunto trova laconica conferma: i grandi scrittori sono tutti cattolici. Eppure, se essere scrittore di destra, ormai - visti i recenti capovolgimenti politici -, è quasi un vanto, l'aggettivo «cattolico» è una specie di marchio d'infamia sulla fedina estetica dello scrittore. Posto che di uno scrittore non ci importa nulla - che sia buddista o musulmano, di destra o di sinistra, idraulico o del Milan -, dacché conta soltanto lo scritto, un grande scrittore non può non essere cattolico. Al di là di ogni vieta ideologia, di ogni faina fama, soltanto il cattolicesimo permette di indagare la realtà nei suoi aspetti più sinistri, urticanti, feroci. Soltanto il cattolicesimo permette di fare lo scalpo all'uomo, di gambizzare Dio. Eppure, l'aggettivo «cattolico» è brandito come un manganello per alienare dal centro del canone italiano scrittori prodigiosi come Mario Pomilio e Giovanni Testori, Giorgio Saviane, Eugenio Corti, Giovannino Guareschi. Tra i contemporanei, accettiamo Alessandro Zaccuri e Luca Doninelli, Eraldo Affinati, Daniele Mencarelli e Alessandro Rivali, ma altri autori, fieramente cattolici, stanno nelle catacombe. Vi invito a leggere Riccardo Ielmini, ad esempio, scrittore che a me ricorda il sommo Saul Bellow: i suoi libri - Storia della mia circoncisione è uscito nel 2019, Spettri Diavoli Cristi Noi esce per Neo Edizioni la prossima settimana - sono di invidiabile bellezza. Il suo problema? Vive alla periferia dell'impero culturale, a Laveno, ha il coraggio di dirsi cattolico, sorride, sa dire lo scandalo della gioia. I grandi scrittori sono tutti cattolici perché il cattolicesimo si fonda sul Verbo, un Verbo martoriato, che gemma sangue. Un Verbo che polverizza grammatiche e vocabolari, che paralizza i logoteti dell'oggi, i burocrati da premio Strega.

Ai discepoli, Gesù impone la necessità di «nuove lingue» per un mondo nuovo. Lingue che scacciano i demoni, guariscono i malati, liberano dal male. Cattolico o no, è questo il compito di ogni scrittore degno di lettura.

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