«Nei miei libri precedenti ho cercato di raccontare alcune delle questioni legate all'arte e al design in modo da dimostrare che riguardano tutti. Qui invece parlo di una cosa tutt'altro che esoterica, che abbiamo tutti, e mostro come sia complessa quanto un'opera d'arte». Questo qualcosa è la nostra faccia, e Riccardo Falcinelli la smonta, rimonta e analizza in Visus (Einaudi, pagg. 546, euro 25), un libro dove fra decine di fotografie, opere d'arte e disegni mette in scena le «Storie del volto dall'antichità al selfie». Lo presenterà sabato 23 novembre al Pazza Idea Festival di Cagliari (ore 20).
Perché il volto?
«Volevo capire come guardiamo la nostra faccia in una società dominata dalle immagini e in cui il nostro volto è diventato esso stesso un'immagine, utilizzata nei reel e nei selfie».
C'è anche, diciamo così, un certo background.
«In quanto figlio di una gemella, ho cominciato presto a farmi quelle domande sulla percezione, la somiglianza e l'apparenza dei volti che sono i pilastri della comunicazione».
Per esempio?
«Come è possibile che due segni uguali significhino cose diverse? E perché amiamo certi volti e non altri? Quando chiesi a mio padre perché si fosse innamorato di mia mamma e non di mia zia, non ebbe dubbi: Sono diverse. Una risposta che ci parla di come il nostro sguardo costruisca la realtà, poiché ciascuno proietta sulle immagini le proprie aspettative e i propri desideri».
Altro che oggettività...
«Lo sguardo umano è desiderante: per vedere davvero qualcosa, la dobbiamo desiderare. E questo si capisce ancora di più se consideriamo le facce. Secondo gli antichi, l'arte ha avuto inizio tracciando il profilo delle persone amate sui muri. Poi, anche al di fuori dell'ambito artistico, noi crediamo che la faccia sia qualcosa di naturale...».
Non è così?
«La modifichiamo continuamente. Gli occhiali, la barba, l'apparecchio, il taglio di capelli: tante piccole cose che costruiscono il nostro viso come un'opera d'arte; e lo facciamo per raccontare e comunicare qualcosa di noi, del nostro modo di stare nel mondo e della nostra sensibilità. Nessuno è naturale».
E nell'arte allora?
«Il procedimento è portato all'estremo, per significare la perdita o l'importanza di certi valori e raccontare storie. Parliamo soprattutto di re, potenti e regine perché, fino all'800, la possibilità di mettere in scena il proprio volto riguarda pochi».
Poi che cosa accade?
«La democrazia porta anche lo sviluppo di relazioni sociali con gli altri, per ragioni lavorative e, quindi, alla necessità di mostrarsi in un certo modo. Criticare l'eccesso di vanità nel nostro mondo è moralismo».
Il nostro cervello ha un rapporto speciale con i volti?
«Le neuroscienze ci dicono che, quando vediamo un volto, soprattutto se umano, nel cervello si attivano dei circuiti che toccano le aree più profonde, quelle che gestiscono le emozioni primordiali. Perciò il cervello reagisce diversamente se guardiamo i girasoli di Van Gogh o il suo autoritratto».
Poi c'è il problema del volto «vero». Primo aspetto: che il volto sia reale...
«Un volto creato con l'intelligenza artificiale, se molto realistico, è impossibile da distinguere da una fotografia; è un tema che, fin da Platone, suscita perplessità e dovremo allenarci a essere ancora più sospettosi».
Secondo: la verità di un volto è nell'aderenza alla realtà o in altro?
«A volte troviamo più vera una astrazione di un volto, anziché una immagine fotorealistica. Si pensi a Gertrude Stein che, del ritratto che le aveva fatto Picasso, diceva: questa sono davvero io. O agli autoritratti di Schiele, in cui la deformazione rasenta la caricatura ma in cui c'è una verità che non c'è in molti dipinti realistici. Gombrich diceva che, spesso, una caricatura è più uguale alla persona della persona stessa».
Come può succedere?
«Scegliere di amplificare una caratteristica è un modo eccellente per decifrare un volto. Pensiamo ai capelli di Trump: ha capito che lo rendono una caricatura e, quindi, subito riconoscibile; e oggi la riconoscibilità è la prima forma di popolarità».
Quindi sono un vantaggio?
«Sì. Credo proprio lo faccia apposta. Sempre vestito nello stesso identico modo e con quei capelli è come Paperino: perennemente uguale. È la forma di popolarità massima che possa esistere, anche se ha un prezzo».
I ritratti più importanti?
«Quelli in cui si inventa un codice nuovo. Quelli della Roma repubblicana, dove appaiono le rughe: non si idealizzano più le persone, si riproducono i tratti nudi e crudi. E qualunque ritratto di Antonello da Messina».
Perché?
«Sono dipinti all'inizio del '400 e sembrano fotografie: la verità dello sguardo, la posa di tre quarti... È il ritratto psicologico, lo scandaglio dell'anima. E poi altri due la Ragazza con l'orecchino di perla di Vermeer, popolare e meraviglioso; e Mademoiselle Caroline Rivière di Ingres, che fu molto criticato ma che riassume un'intera epoca, l'Ottocento».
Quale parte «fa» il viso?
«Dipende. Per me la barba, ma il make up è qualsiasi tipo di sistemazione del volto che ci faccia somigliare a un'idea che abbiamo di noi. Credo che la cosmesi sia un'arte alla pari di altre. Pensiamo a Marilyn...».
Che legame c'è fra ritratto e potere?
«I potenti hanno sempre avuto bisogno dei ritratti. Più uno è potente, più ha una iconografia, ripetibile e codificata: John Fitzgerald Kennedy, Cesare, Augusto, Elisabetta I...»
Il primo volto famoso?
«Quello di Alessandro Magno che, attraverso le monete, diffuse l'immagine della sua faccia in tutto il Mediterraneo. Poi ci fu Augusto, che studiò una vera politica delle immagini, così come Martin Lutero e la regina Elisabetta I, che già nel '500 aveva un entourage che si occupava dell'acconciatura, dell'incarnato della pelle e dei vestiti».
E oggi con i selfie?
«Trascorriamo la nostra vita con lo smartphone e lo usiamo come il vecchio specchietto da cipria; solo che lo abbiamo tutti, e tutti possiamo vedere come siamo. Come risultato, ci guardiamo molto di più: la nostra faccia è al centro dell'attenzione e dei nostri pensieri come mai in passato. Fino a 150 anni fa, nessuno conosceva i suoi lineamenti...»
Che cos'è il volto?
«È una costruzione. Qualcosa che creiamo in un arco di tempo lungo e contro la quale combattiamo, perché va un po' dove le pare, e invecchia anche...
L'arte è il luogo dove tutto ciò ha preso una forma di tipo narrativo, espressivo, politico tale da rivestire un ruolo nella costruzione della civiltà e dei rapporti di potere: in questo, il volto è stato utilizzato più di qualsiasi altra cosa. La storia del volto e la storia del potere sono da sempre un'unica storia».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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