Quale futuro attende i musei, le mostre, gli spazi d'arte, quando finalmente (quando?) si potrà parlare di ritrovata normalità e quando anche il ministro della linea dura si sarà convinto che la cultura ha bisogno d'aria per esprimersi?
Tre gli scenari possibili di cui si discute fra esperti e interessati. Il primo è quello più ottimistico. La voglia di uscire di casa, viaggiare, visitare le città e i patrimoni artistici come prima, anzi più di prima per reagire alla solitudine imposta dal lockdown. E tutto riparte, di nuovo folle come fu per Raffaello la scorsa estate a Roma, si staccano tanti biglietti e arriva il denaro dei partner privati a sostenere le grandi mostre, individuate invece come le principali vittime della crisi, e di nuovo tutti in giro per le fiere a comprare e vendere. Sarà così bello che non ci ricorderemo più del terribile 2020. Ci vuole coraggio e incoscienza, che se non mancano ad esempio ad Arturo Galansino, direttore di Palazzo Strozzi a Firenze, che ha già annunciato una grande mostra di Jeff Koons.
All'opposto c'è il pessimismo di chi è convinto che il meccanismo non ripartirà presto, per la paura e per le nuove abitudini. In tale scenario i musei si troverebbero a languire, tirerebbero a campare sulle collezioni - che non hanno sufficiente sex appeal - e si ridurrebbe significativamente lo zoccolo duro del pubblico, ovvero le scolaresche e gli anziani, per motivi diversi. A quel punto diventerebbe necessario fare qualche drammatico sacrificio (non tutto si può mantenere, diversi musei non riaprono, mostre ed eventi d'eccezione rimandati sine die).
Come spesso accade, la verità sta nel mezzo. Che ci sia bisogno di cambiare non è una conseguenza solo del Covid. Non confondiamo marzo con la situazione odierna: in primavera, sorpresi, travolti, ci fu una corsa a supportare l'improvvisa assenza fisica con una valanga di contenuti virtuali, in buona parte dilettanteschi. Ora è giunto il tempo dell'organizzazione, cominciando dalla consapevolezza che filmare una mostra e renderla disponibile sui social non basta. Il 2021 porterà la necessità di nuove professioni nell'arte, figure che dovranno essere inventate nelle università e nelle accademie (sperando che i docenti ne siano capaci), cominciando da una semplice constatazione: 9 volte su 10 il gettonatissimo «social media manager» non sa di contenuti culturali e chi ha passione per l'arte è primitivo nel maneggiare i new media. Questione di forma, linguaggio, capacità di capire quali parole e quali immagini servono davvero e quali riempiono spazi e basta. È il mestiere del prossimo futuro.
Poiché sarà questo, probabilmente, il paesaggio che ci troveremo a percorrere, la prima conseguenza è che il criterio aritmetico non sarà più l'unico per valutare la bontà di un prodotto. Comparirà il controllo qualitativo e l'effetto «coda lunga», per cui una mostra non esprime solo biglietti venduti, accessi o like, ma anche la persistenza nella pancia della cosiddetta questione culturale. Quando c'è bisogno di cambiare, vince chi ha coraggio e sa rischiare. Adesso si deve sperimentare, si possono avanzare proposte nuove, mescolando i linguaggi, inventando nuovi pubblici, offrendo una sintassi semplice ma non banale, diretta ma non cronachistica.
La storia (dell'arte) ci dice che il XX è stato un secolo di rivoluzioni e traumi; non c'è da spaventarsi, ma da provare a far saltare il banco, perché il costume di pensare al museo come un luogo in cui stipare un certo numero di persone - ha fatto notare Francesco Bonami giorni fa - era già entrato in crisi. Non so se capiterà presto un'altra occasione di ridiscutere tutto, adesso è il momento buono.
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