Se la circoscrizione elettorale di Barack Obama fosse l'Europa, l'Africa o l'America latina egli diventerebbe presidente quasi per acclamazione. In queste parti del mondo ha tutto a suo favore: età, carisma, colore di pelle, media, e paradossalmente l'anti americanismo identificato con Bush. Ma i non americani colpiti dalla «obamania» non votano per la Casa Bianca.
Non lo possono fare neppure in Israele dove il candidato democratico è stato ricevuto con onori presidenziali che non rallegrano certo il suo concorrente repubblicano McCain: proprio da qui potrebbe svilupparsi un elemento decisivo per le sorti delle elezioni più pubblicizzate della storia americana. Ed è questo che spiega perché è in Israele che Obama ha iniziato il «tour» ripetendo con lievi differenze, quanto detto all'assemblea del potente lobby pro israeliana Aipec: Gerusalemme capitale; diritto degli abitanti di Sderot bombardata di difendersi «come farebbe lui se la sua casa con le sue due bambine» fosse soggetta alla stessa sorte; no al nucleare iraniano; nessuna scusa al terrorismo. Obama non parlava tanto agli israeliani quanto agli ebrei americani che oggi si dichiarano - come notava il Guardian londinese - per il 61% in favore di un candidato afroamericano considerato solo tre mesi fa (anche dalla dirigenza di Gerusalemme) - infido, pro palestinese e circondato da uno stato maggiore noto per le sue critiche a Israele.
Gli ebrei non rappresentano che il 2% dell'elettorato Usa. Ma possono diventare l'ago della bilancia in due stati chiavi per la Casa Bianca: New York e California, oltre al loro peso specifico sull'élite intellettuale.
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