«Avevo solo sei anni e mezzo quando subii un’aggressione dura, violenta. Ero con un mio amico. Quella donna gli disse: “a te non la do perché sei brutto”. E darla significava spaccare tutto quello che c’era da spaccare. Sotto violenza si ricorda tutto. Tutto. E se c’è qualcosa che combatto con tutto me stesso è la pedofilia. Sparerei continuamente». A parlare è Alberto Bevilacqua, l’immortale, perché è così che si sente un autore arrivato, in vita, ai «Meridiani» Mondadori. Una città in amore, La Califfa, Questa specie di amore, L’occhio del gatto, Una scandalosa giovinezza, I sensi incantati, La polvere sull’erba, sette «narrazioni» in cui, attraverso l’esperienza personale, Bevilacqua offre «a questo Paese e all’Europa, sette specchi in cui potersi osservare». Libri che raccontano «un passato capace di anticipare il futuro» e in cui, insieme alle storie dei protagonisti con il loro «tramestio» interiore, si legge la Storia. L’epopea personale di uno scrittore figlio di due mondi diventa lo specchio del paese. Parma, la sua città, nettamente divisa in due dal torrente e dalla condizione economica, lo fa sentire il protagonista di una tragedia shakespeariana. Da una parte il popolo con le sue genialità e le sue meschinerie, dall’altra i responsabili della dittatura.
Bevilacqua, lei da che parte stava?
«In Una città in amore racconto la provincia, la condizione popolare durante la rivolta del ’22. Un momento terribile che vide gli uni contro gli altri. Io mi sentivo come dentro una forcella, ero diviso fra l’ambiente colto, geniale, ma povero, al quale apparteneva mia madre e quello dell’ex corte, degli industriali, di cui faceva parte mio padre. Un fascista. Un maresciallo dell’aviazione agli ordini di Balbo. Un “divo” che stava spesso lontano da casa per attraversare i mari in imprese straordinarie».
Nel 1955, giovanissimo, ha scritto La polvere sull’erba, il suo primo libro. Perché uscì solo nel 2000?
«Mi dissero: “Se pubblichi questo racconto facciamo male a tuo padre!». E io lo diedi proprio a mio padre. Gli dissi che non ne volevo sapere niente. Quando è morto mia sorella me lo ha mandato, ed è uscito da Einaudi. È un libro scomodo in cui si parla di un segreto di Stato, di fatti accaduti in quel “triangolo della morte” che andava dall’Emilia in su, verso il Po, dove morirono migliaia di civili innocenti. Luoghi dove anche quando finì la guerra ideologica si continuò ad ammazzare per vendetta. Io mi aggiravo in queste terre. Vedevo cose tremende».
Tipo?
«Ciò che mi colpiva era l’impassibilità di chi veniva tirato fuori dalle case, fosse ex fascista o ex partigiano, chiedeva una sigaretta e trac. Lo falciavano. C’era una certa abitudine a morire».
Un’infanzia difficile, la sua.
«Ho visto mia madre soffrire le pene dell’inferno. L’ho vista entrare in una grave depressione che le è costata la clinica psichiatrica a vita, e tre elettroshock. Una pratica orrenda».
E lei dove stava mentre sua mamma era in clinica e suo padre a compiere le sue imprese?
«Stavo con mia nonna che aveva nove figlie, che lavorava. Mi arrangiavo».
Anche pranzando con le prostitute di una casa di tolleranza?
«Siccome mia nonna, cosa poteva fare?, arrivava quando poteva, un giorno chiese a queste donne se mi potevano far mangiare con loro. Nella loro cucina. Solo che poi la tentazione mi portò fuori dalla stanzetta del pranzo. Avevo quattordici anni. Devo dire che per quanto riguarda la pedofilia gli uomini primeggiano, ma anche le donne non scherzano!».
La violenza da bambino, i bordelli poi. Che sentimento nutre verso la donna?
«Le sembrerà strano, ma nonostante tutto questo provo grande nostalgia. Credo che sia un essere a cui si fa pagare in tutti i modi l’esistenza. La prima a essere cieca, crudele e stupida con il sesso femminile è proprio la natura. Pensi per esempio al martirio che la donna deve patire ogni mese per perseguire i suoi intenti. Natura mia, non andiamo mica bene! Anche la religione ha le sue colpe. L’ha relegata lontano dalla sua verità. Maria Vergine viene sempre considerata come una poveretta, invece era una che aveva anche una collocazione sociale. E la letteratura, anche quella alta, del secolo scorso? Non ha usato la donna solo ed esclusivamente per le scene di sesso? Per le scene amorose?».
Per questo ha creato La Califfa?
«Credo che sia stato un libro atteso, in Italia e all’estero. Mancava una figura femminile raccontata nella sua verità, nella sua normalità, senza abusarne mai. La Califfa è protagonista della sua vita, è il centro di una storia con molti aspetti sociali importanti».
Nella società contemporanea c’è ancora la califfa?
«C’è stata. Adesso c’è il pompadourismo, ci sono le categorie, le escort. Mi sembra che la causa femminile sia ampiamente tradita da fenomeni di rigurgito storico».
Secondo lei davvero le donne con i loro s-vestiti, inviano all’uomo un messaggio che più o meno dice: «violentami»?
«La violenza carnale fa parte della delinquenza, dell’assassinio. Non credo che la pubblicità di Belén, per fare un esempio, possa influenzare in questo senso. Per chi vive di provocazioni la donna era molto più stimolante un tempo, quando era coperta ma allusiva. Il problema su larga scala è un altro. È nella crisi della sessualità che manca di respiro. Non è più come una religione che va interpretata con passione profonda. È diventata marcia, mediocre. Non c’è più dialogo tra i due sessi. Non c’è più quell’intercapedine necessaria. Guardi cosa succede quando ci si lascia: ci si odia, ci si ammazza».
Lei è molto attratto da tutto ciò che è mistero. Dall’inconoscibile.
«Io ho una “sensitività” spinta oltre, che è una disgrazia perché si manifesta anche con cose spiacevoli».
Per esempio?
«Quando ero giovane, avevo diciannove anni, sono entrato nella simpatia di uno scrittore, Mario Colombi Guidotti, l’inventore della prima pagina letteraria per la Gazzetta di Parma. Una sera mi chiese di accompagnarlo a una festa, mentre mi parlava sentii tra di noi una presenza terza. Dissi: “No. Non posso”. Ci andò da solo. Al ritorno ebbe un incidente e morì. Premonizioni. Solo che raccontare storie come queste in un Paese come il nostro non fa bene. Qui c’è il vilipendio. Ti fanno male».
Che cos’ha oggi questo Paese che non va?
«Ha due problemi gravi. Il primo è che non ha una psiche unitaria, una psiche della collettività: siamo troppo individualisti. Il secondo è che siamo fratturati dalla presenza delle mafie, stati e antistati che operano attivamente anche all’estero. Veri e propri governi difficilissimi da scardinare. Non c’è altro Paese così torturato. Siamo logori».
Perché siamo arrivati a questo punto?
«Abbiamo avuto un impero romano grandioso, che ha
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