Ora Rifondazione teme l’esplosione del partito

E Montezemolo respinge le accuse di ingerenze: «Siamo seri...»

Laura Cesaretti

da Roma

«Parliamo di cose serie», taglia corto l’Indiziato numero uno del Grande Complotto dei Poteri Forti.
Il complotto è quello denunciato dai vertici di Rifondazione (col silenzio-assenso del presidente della Camera Fausto Bertinotti), che dicono di temere un’operazione «trasformistica» per sostituire in corsa la sinistra radical dell’Unione con i centristi Udc. E ieri Luca Cordero di Montezemolo ha liquidato la faccenda come una boutade estiva senza importanza: «Parliamo di cose serie», appunto, perché «questo è un Paese che mai come adesso ha bisogno di cose serie».
Per la verità, su Liberazione di ieri, rispondendo a Clemente Mastella che assicura che «non c'è alcuna trama, né un piano politico per ribaltare il governo e sostituire Rifondazione», la bertinottiana di ferro Rina Gagliardi aveva precisato che non di «complotto» si tratta, bensì di una diffusa «insofferenza» nei confronti della nuova maggioranza di una parte ampia dell’establishment», animata dal desiderio di poter tornare ad eterodirigere una «politica debole», resa tale grazie alla «marginalizzazione della sinistra radicale». Mentre il neo-segretario del Prc Franco Giordano, intervistato da Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera, punta con decisione il dito contro chi vuole «snaturare la coalizione cambiandone l’asse politico» basato sul gioco di sponda tra Prodi e Bertinotti: Montezemolo («è chiaro che ci vorrebbe sostituire con Casini»), «settori della Margherita» di Rutelli, «le pressioni internazionali», degli Usa innanzitutto, e «una parte delle gerarchie ecclesiastiche», il segaligno Ruini in testa.
Ora, che la maggioranza sia già in preda a convulsioni e che ogni dossier aperto sul tavolo del governo (dalla Tav all’Afghanistan, dalla manovra alla giustizia) rischi di aumentarle è sotto gli occhi di tutti. Così come il fatto che il cosiddetto establishment, a cominciare dai grandi giornali, stia tenendo sotto pressione l’Unione e il suo premier, senza concedere sconti e anzi mettendo in rilievo le sue continue dimostrazioni di debolezza (vedi il caso Rai). Ed è anche probabile che in molti crocevia del potere, politico e no, si stia guardando ad un futuro più ravvicinato del previsto (si pensava ad un paio d’anni, ora qualcuno parla già dell’autunno prossimo) nel quale Prodi e la sua attuale coalizione potrebbero uscire di scena, e si ragioni su come sostituirli.
Ma a muovere la sonante denuncia di Rifondazione non è questo: il vero problema dei bertinottiani si chiama Prc, al momento, e non ribaltone centrista. Da quando è approdato al governo, e Bertinotti si è sfilato andando a Montecitorio, il partito è in sofferenza; le minoranze interne (l’area ex cossuttiana dell’Ernesto, le componenti della «sinistra critica») sono sul piede di guerra; il nuovo segretario - come si è visto nell’ultimo Comitato politico - ha dalla sua numeri risicati dentro il partito e anche dirigenti di maggioranza che speravano di avere il suo posto (Gennaro Migliore e Alfonso Gianni) fanno un po’ di fronda. L’unico ministro di Rifondazione, Paolo Ferrero, si è lasciato sfuggire una previsione fosca: «Rischiamo di smontare il partito in sei mesi». E a preoccupare i vertici c’è innanzitutto la scadenza del decreto sulle missioni, che nel giro di un mesetto andrà votato. Dentro il Prc l’area che non ha intenzione di digerire un sì alla permanenza delle truppe italiane in Afghanistan si sta allargando, e travalica i confini delle minoranze. Riuscire a controllare i singoli voti nei gruppi parlamentari sarà quasi impossibile. E la prospettiva di un’unica forza di sinistra con dentro Prc, Verdi, Pdci, sinistra ds è molto lontana se non «già abortita», come dice il verde Paolo Cento: non basta certo Cesare Salvi per costituirla, e tutti gli altri guardano a prospettive diverse, a cominciare dal Correntone. «Bisognava pensarci prima delle elezioni - dice Cento - ed evitare che la sinistra si frammentasse nel voto, regalando l’egemonia a Ds e Margherita».
Di qui nasce la decisione di suonare l’allarme rosso del «ribaltone», con la massima enfasi possibile e con l’avallo di Fausto Bertinotti: il partito è nel mirino dei «poteri forti», che vogliono scacciarlo dal governo. Dunque occorre tenere duro e serrare le file, mandando giù anche il boccone amaro di Kabul, e tra poco quello della manovra di Padoa-Schioppa.

Altrimenti l’avranno vinta tutti quei nemici che fanno salire il sangue alla testa della base rifondarola: la Confindustria, la Cei, l’Amerika di Bush, tutti contro il Prc al governo. Traduzione: votare come vuole la maggioranza e come chiede Prodi, vuol dire in realtà votare contro di loro. Resta da vedere se la chiamata alle armi funzionerà.

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