Orazio Labbate disegna le nuove mappe dell'"Orrore letterario"

Da Landolfi a Moresco, lo scrittore siciliano crea un sorprendente canone italiano della paura

Torna in libreria Orazio Labbate, l'inventore del neogotico siciliano, a partire dalla sua trilogia: Lo scuru (2014) e Suttaterra (2017), editi da Tunué, e Spirdu, uscito lo scorso anno con Italo Svevo. Questa volta però non con un romanzo, ma con un saggio, L'orrore letterario (Italo Svevo, pp. 117, euro 15), nel quale il giovane scrittore siciliano rifonda il canone del genere orrorifico mappando le opere e gli autori italiani contemporanei che, accomunati da un sentire esemplare, lo costituirebbero. La prima cosa che colpisce in questo saggio minuzioso è la lingua, che ne fa opera tra le opere di cui tratta. Labbate non compone frasi, scrive formule metafisiche. Una lingua iniziatica, prodotta da un alchimista della parola, un esoterico della lingua, che mette in fila costrutti come cabale dai poteri rigenerativi, la cui scrittura si fa consustanziale alle opere mappate.

Entrando nel merito, due i pilastri del rinnovato canone. Il primo è la voce, la lingua, necessariamente creatrice, fattrice di realtà, mai piegata al mondo, semmai forgiatrice di mondi. Perché la voce è fondante. «Le opere esemplari, difatti, sono innanzitutto la prova di una voce», che mette capo a una scrittura «mai mansueta», simbolica, con aspirazioni epistemiche. Il secondo è l'elemento perturbante, per dirla con Freud «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare», ma che all'improvviso si rivela per essere altro. L'orrore bianco della balena Moby Dick.

Tre i filoni in cui si frammenta il canone: mito e gotico, inquietudine e horror teologico-esistenziale, perturbamento investigativo. Nei primi due prevarrebbe l'elemento irrazionale, arcaico, nel terzo la componente raziocinante, investigativa, talvolta parodistica, all'insegna dell'erudizione.

Quanto al primo, si va dalla Sicilia mitica dell'Horcynus Orca (1975) di Stefano d'Arrigo, opera radicale «in grado di infettare di ansietà soprannaturali e di un passato intoccabile l'immaginario di chi legge», a quella gotica e dalla «lingua paurosa» di Nottempo, casa per casa (1992) di Vincenzo Consolo. Dalle «sale degli specchi» di Giorgio Manganelli (ne La palude definitiva, 1991), attraversate dalle «piccole frenesie artificiose del male» e da un «linguaggio dell'annegamento» che si muove tra i detriti di «cosmologie defunte» e di «divinità dimenticate», fino ai «folletti tuttofare, ma ludicamente mefistofelici, chiusi negli armadi», di Anna Maria Ortese (Il monaciello di Napoli, 2001). O alla «laconicità vertiginosa» di Loredana Lipperini, capace in La notte si avvicina (2020) di produrre un ribaltamento di senso tra bene e male.

Nel secondo filone, ritroviamo l'indimenticabile Tommaso Landolfi, capace di affollare le sue pagine scelte (a cura di Italo Calvino, 1982) di «una sarabanda di astrazioni ipnotiche e perturbanti», tra personaggi «rinchiusi metafisicamente» e «costretti a soffrire per animali morenti, morti, per persone morte o invisibili, per bestie antropomorfe venute fuori dalla fantasia delle camere, dal sogno o dalla realtà piena di orrore lecito, accettato». E poi Antonio Moresco, che ne Gli esordi (2011) dà espressione a un «linguaggio onirico che dilaga fino alle nere superfici dell'incomprensibile», penetrando «con forza paurosa, sonnambolica, nel concetto della sottrazione del tempo che annienta», tra «gesti minuscoli», «piccole e croccanti rotture degli arti» e «spiamenti». E per finire Gesualdo Bufalino, maestro nell'evocare in Le menzogne della notte (1988) «spettri danteschi» attraverso uno stile «di arcaica e sibillina eleganza barocca» atto a produrre atmosfere «sempre sul punto di spezzarsi», calate in un non-tempo e risolte da qualche «diabolus ex machina».

Il terzo filone, per concludere, è dominato dalla razionalità: tra i suoi alfieri Michele Mari, che in Fantasmagonia (2012) opera una «normalizzazione e risoluzione del soprannaturale» fornendo una «caricatura dell'inquietante» attraverso un uso «dotto e capriccioso» del soprannaturale volto a divertire, a ricondurre il caos all'ordine, da vero «matematico dell'orrore». E naturalmente il Leonardo Sciascia de La strega e il capitano (1986), che mette in scena un «soprannaturale bianco», dove «l'orrore letterario si compie» raccontando «con precisione giudiziale e intensità linguistica del negozio carnale della donna col Diavolo». O Il cimitero di Praga (2010) di Umberto Eco, il quale, servendosi di «una turbolenta erudizione sotto sotto parodistica», mostra di non dare «effettivo credito alle manifestazioni del soprannaturale, preferendo un orrore donchisciottesco».

Numerosi nelle pagine del saggio i riferimenti alla letteratura mondiale, da Thomas Ligotti a William Peter Blatty, fino a Thomas Bernhard e a Mark Z. Danielewski.

Nonché, in ambito critico, a Mario Praz, Tzvetan Todorov (La letteratura fantastica, 1977, vera pietra miliare) e Francesco Orlando (Il soprannaturale letterario, 2017).

Un saggio, quello di Labbate, breve per numero di pagine ma denso e complesso come una cattedrale gotica, appunto, tra gargoyle e figure a grottesca di sinistra bellezza.

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