Se gli esseri umani fossero libri, quella fornace ardente che era il mercato di Palermo nel mattino del 23 luglio 1232 sarebbe stata di certo una delle biblioteche più ricche della cristianità. Tra lo sciamare del popolino, fauna eterogenea e berciante, non era raro scorgere passanti dai tratti esotici, arabi dai mustacchi più neri del carbone, monaci basiliani avvolti in tonache cenciose ed ebrei dai volti bruniti dal sole. Al pari di infiniti volumina, registri, vacchette e addirittura rotoli di papiro, quei rappresentanti della varietà messa da Dio sulla terra se ne stavano stipati uno contro l'altro, quasi che un bibliotecario negligente, in onore del caos scaturito dalla torre di Babele, avesse deciso di accostare opere dai contenuti diversissimi come le epistole di Gregorio Magno e dei volgarizzamenti di vecchi lunari buoni sì e no a risuolare, con la loro cartapecora, un calzare sfondato.
Ma non era la moltitudine, sotto i tendoni di quel mattino d'estate, a farla da padrona, bensì l'abilità dei pochi eletti in grado di muoversi con disinvoltura attraverso la ressa, al pari di certi libriccini capaci di sgusciare qua e là tra gli scaffali di una libreria, nascondendosi tra opere di grossa mole per farsi beffe dei poveri diavoli intenti a cercarli.
Ebbene, tra quei libriccini ce n'era uno in particolare che avrebbe allietato con le sue storie non pochi curiosi. Si trattava di un esemplare dal volto abbronzato, il passo più leggero di una piuma e i capelli ricci ficcati sotto un turbante da mezzo soldo. Sul frontespizio, se mai ne fosse stato fornito, avrebbe esibito soltanto un nome, Aram, e nelle sue quattordici pagine, una per ogni anno di età, una serie di rozze miniature riguardanti il mestiere del tagliaborse.
Un mestiere che Aram svolgeva con la massima solerzia, muovendosi più furtivo di un'ombra fra il traffico di tuniche e mantelli e recidendo, con la mano ferma di un vendemmiatore, i frutti maturi che pendevano da cinture, cordoni e fusciacche di ogni foggia. Senza rimorso e tema alcuna, oltretutto, giacché, per chi come lui vantava origini meno nobili di un gatto randagio, gabbare o essere gabbati equivaleva a una legge naturale. Specie nella Sicilia di re Federico II.
Aram, tuttavia, non era l'unica volpe nel pollaio. Quel giorno al mercato c'era un altro predatore, ben più astuto e saggio di lui. Un predatore alto e magro che lo spiava da sotto il tendone di un venditore di lanterne, abbozzando un mezzo sorriso ogni qual volta il ladruncolo s'impossessava di una scarsella e la faceva sparire con un rapido gioco di prestigio sotto il farsetto. Ecco!, pareva rimuginare lo sconosciuto in quei momenti. Ecco un giovane di talento! Benché, a onor del vero, non ci fosse nulla di gradevole nella sua espressione serpentina.
E fu giusto con la rapidità di un serpente che, appena ebbe stimato d'aver visto abbastanza, l'uomo si confuse tra i passanti e, attento a non farsi notare da alcuno, afferrò la mano del ladro prima che s'infilasse nella borsa di una matrona dal viso imbellettato con l'henné.
«Se ci tenete alla vita...», sussurrò d'istinto Aram, facendosi minaccioso.
«Ecco il gatto che si finge leone», lo schernì lo sconosciuto senza lasciare la presa, per poi rivolgergli un cenno d'invito e condurlo a suon di strattoni sotto l'arco di un androne. «Dimmi», continuò quando furono lontani da occhi indiscreti, «vuoi restare un pezzente finché campi o preferiresti diventare ricco?».
Per tutta risposta Aram estrasse un piccolo pugnale dalla lama ricurva.
Indifferente all'intimidazione, l'uomo aprì le braccia con un sorriso enfatico. «Ricco più di quanto immagini».
«Nascondete davvero tanti pezzi d'oro sotto la vostra tonaca nera?», ironizzò il ladro, mentre gli puntava l'arma contro il ventre.
«Stolto!», lo ammonì l'uomo. «Sotto questa tonaca non troveresti che ossa e visceri... ma se andrai dove ti dirò io, potrai mettere le mani su un autentico tesoro!».
«Come no, il paese della cuccagna!», ghignò il giovane, incredulo. «Se davvero conosceste un posto del genere, perché mai vorreste mandarci qualcun altro?».
«Perché occorre qualcuno con le tue abilità», gli spiegò. «Una persona in grado di entrare e uscire senza farsi notare. E tu sei bravo quanto basta, ne sono persuaso. È da molti giorni che ti osservo».
«Molti giorni?», fremette Aram, irritato dall'idea di essere stato spiato e ancor più per il fatto di non essersene accorto.
«Quel che intendo affidarti è un compito semplicissimo, con bottino assicurato», lo incalzò l'uomo, ammaliante. «Un bottino infinitamente superiore a quel che potresti racimolare in una vita di ruberie».
Il ragazzo gli premette il pugnale contro il ventre. «Ma se ho ben inteso», obiettò, «a rischiare il collo dovrei essere soltanto io».
«Hai ben inteso», non gli nascose l'uomo. «Però in cambio di un simile rischio ti guadagnerai il diritto di tenere per te ogni ricchezza che riuscirai ad arraffare. Mi capisci, figliolo? Di quanto si custodisce in quel luogo potrai tenere ogni meraviglia! Gemme, monete d'oro, monili... Ogni cosa - e ti assicuro che non è poco - eccetto un oggetto: un piccolo scrigno che, non appena sarà entrato in tuo possesso, esigo porti subito a me».
«Uno scrigno?», ripeté Aram, suo malgrado incuriosito. «Quali meraviglie dovrebbe contenere?».
«Non dartene cura», minimizzò lo sconosciuto, mentre con un cauto movimento dell'indice lo persuadeva ad abbassare il pugnale. «Tu limitati a trovarlo e a consegnarlo a me. Il resto delle ricchezze, come già detto, sarà tutto tuo. Giuro sulla Bibbia, non avrai di che pentirti».
«Aspettate a giurare», lo mise in guardia il giovane, sempre diffidente, «giacché nessun patto è stato ancora stretto».
«In tal caso addio!», si esacerbò l'uomo, voltandosi di scatto verso la piazza gremita. «Ne trovo mille di topi di fogna come te».
«Non dico di non essere allettato», lo trattenne Aram. «Prima però voglio sapere chi siete, e sincerarmi che non intendiate denunciarmi ai birri».
A quel punto lo sconosciuto abbozzò una smorfia melliflua. «Se tu venissi catturato dai birri ci rimetterei anch'io, non credi?», spiegò. «In quanto al mio nome, ti concederò il privilegio di conoscerlo non appena avrai portato a termine la missione».
Quelle parole, e le molte altre che ne seguirono, riecheggiarono nella mente del giovane fino al calar della notte, quando una luna color ocra, spuntando tra le nubi mosse dal vento africo, iniziò a illuminare i tetti di Palermo.
Il luogo indicato dal misterioso committente sorgeva in una aziqqa del Cassaro e, non appena Aram vi si trovò di fronte trattenne a stento un'esclamazione di meraviglia. Si trattava di un vetusto palazzo a tre piani, un sovrapporsi di stile arabo e normanno incuneato tra edifici più bassi. Due sentinelle armate di lancia erano appostate davanti al grande ingresso della facciata, ma le merlature che coronavano la sommità parevano sguarnite di vedette.
Vinta la meraviglia, il ragazzo si arrampicò su un loggiato deserto sito sullo stesso lato della strada e da lì, aggrappandosi ora a una crepa, ora a un davanzale, ora a un doccione, raggiunse un tetto sopra il quale poté proseguire carponi verso il palazzo.
C'era un balcone al secondo piano dell'edificio, un recinto di colonnine bianche davanti a una doppia finestra a volta oltre la quale oscillavano delle tende. L'uomo vestito di nero gli aveva consigliato di entrare da là, e Aram, a mano a mano che si avvicinava, ammetteva tra sé che si trattava di un buon consiglio. Quel balcone era perfetto per intrufolarsi senza essere visti, a patto di sapersi arrampicare su un tratto di muratura che, premendo contro un fabbricato più basso, dava forma alla fiancata meridionale del palazzo.
Il ladro superò quell'ultimo ostacolo con l'agilità di una scimmia, dopodiché mise piede sul balcone e da lì, accertatosi di non aver attirato l'attenzione degli armigeri appostati in strada, s'intrufolò sotto le tende.
E per un attimo rimase senza fiato.
Oltre le tende c'era una camera da letto. Anche se, nonostante l'effettiva presenza di un letto a baldacchino, sarebbe stato riduttivo definirla in quel modo. Alla luce di una dozzina di lanterne appese al soffitto e a steli d'ottone, non vi era angolo dell'ambiente in cui non scintillassero i colori dell'oro e di altri metalli preziosi.
Dunque l'uomo del mercato aveva detto il vero!, esultò tra sé Aram, mentre scrutava in un crescendo di bramosia vasi e bauli di legno borchiato colmi di gemme e di monete, statue, arazzi e monili d'indubbio pregio. L'unico problema, meditò con un sorrisetto rapace, sarebbe stato sgraffignare il più possibile e svignarsela a tasche piene senza farsi scoprire, dopodiché iniziò a riempire una bisaccia di tela che aveva portato con sé, prediligendo oggetti di piccole dimensioni, monete e gioielli.
Nel frattempo si avvicinava sempre più al letto a baldacchino, come guidato da una voce interiore. Una voce che non apparteneva affatto a lui, bensì all'uomo del mistero. Prima di congedarlo, infatti, costui aveva suggellato l'accordo con una terribile minaccia. Tradiscimi, erano state le sue ultime parole, e te ne pentirai in un modo che neppure immagini. Quant'è vero l'inferno, e quanto lo sono le molteplici porte che collegano il mondo dei mortali a quello dei supplizi eterni.
Ragion per cui restava sempre vivo, nella mente di Aram, il proposito di trovare il minuscolo scrigno bramato dal suo complice. Uno scrigno dal quale - gli era stato spiegato - il suo padrone non si separava mai, e che pertanto doveva trovarsi proprio accanto a lui, sul letto.
Più silenzioso di un succubo in procinto di insidiare un dormiente, il giovane scostò dunque le tende del baldacchino e spiò al lucore delle fiammelle la sagoma dell'individuo intento a riposare sul giaciglio di piume.
Era un uomo pingue avvolto in una vestaglia di seta dorata di Tiraz. Un uomo capace anche da addormentato di trasudare eminenza, benché Aram, nella sua scaltra ignoranza, non sapesse immaginare di quale genere d'eminenza si trattasse. Non certo quella di un religioso, tuttavia, né tantomeno di un guerriero o di un aristocratico. A giudicare dalla bizzarria di alcuni arredi disposti negli angoli della stanza, dai volti di demone scolpiti sulle lucerne, dalle figure mostruose ricamate sugli arazzi e persino dall'odore indecifrabile esalato dal braciere accanto al letto, doveva interessare una forma di autorevolezza assai più ambigua e insidiosa.
Il ladro non era ancora giunto a fondo di quel ragionamento che, in un fremito di eccitazione, notò la catenella d'ottone avvinta intorno ai fianchi del dormiente. Si trattava di quel genere di catenelle alle quali i prelati solevano appendere chiavi, icone sacre e portaprofumi.
Soltanto che dall'estremità di quella particolare catena pendeva una piccola custodia rettangolare foderata di cuoio e tempestata di perle!
Meno di un'ora dopo, Aram si trovava come d'accordo ai margini della città vecchia, davanti a un antico monastero di rito greco. La luna aveva perso le sue sfumature ocra e il cielo, unendosi attraverso la tenebra al mare, pareva uno sconfinato baratro affacciato sull'abisso.
L'uomo in nero era già là ad aspettarlo.
Il ladro lo vide in piedi tra le ombre al pari di uno spettro e, ansioso di porre fine a quella seppur fruttuosa collaborazione, gli porse immediatamente il piccolo scrigno.
«Qualcuno ti ha seguito?», gli domandò lo sconosciuto, impadronendosi con un rapido gesto dell'oggetto.
«Nessuno», gli rispose il giovane, incapace di distogliere lo sguardo dalle sue dita chiuse intorno a quella sorta di minuscolo reliquiario. Dita magrissime, simili alle zampe di un ragno strette intorno alla preda. E già stava per allontanarsi quando udì uno scatto metallico.
L'uomo aveva appena aperto lo scrigno.
«Cosa c'è dentro?», non riuscì a trattenersi Aram.
Fece appena in tempo a cogliere uno sfarfallio di pergamena sotto la luce fatua della luna.
Poi, più veloce di una freccia scoccata da un arco, l'uomo in nero estrasse uno stiletto dall'interno di una manica e scattò in avanti.
«Dentro ci sono delle pagine», rispose, affondando la lama nelle viscere del ragazzo. «Pagine di un libro che cerco da anni: il famigerato Çeffer Raziel, o Libro degli Angeli, vergato secoli or sono dai più sapienti magi d'Oriente! Lo sciocco che hai derubato non voleva vendermelo, né tantomeno farmelo consultare, perciò...».
Ma Aram non ascoltava più. Ogni fibra della sua essenza si stringeva intorno al freddo del metallo penetrato nella carne.
E mentre il libello dalle rozze miniature della sua breve esistenza si chiudeva con lentezza, Michele Scoto, sommo astrologo della corte imperiale di Palermo, placava senza alcun rimorso la sete della sua sconfinata curiosità.
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