Il "papello"? Una  falsa pista Stragi legate a mafia e appalti

Borsellino chiese ai carabinieri di indagare in quella direzione per la morte di Falcone. E fu ucciso per lo stesso motivo. Il generale Mori: "Dei contatti con Ciancimino informai Violante"

Il "papello"? Una  falsa pista  
Stragi legate a mafia e appalti

Non solo «non vi fu alcuna trattativa con Cosa nostra». Ma il giudice Paolo Borsellino non venne ammazzato perché s’era opposto a quel presunto scambio di «favori» fra i carabinieri del Ros e l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Prova ne è che a quegli stessi carabinieri, un mese prima di morire, Borsellino affidò le indagini sul filone mafia-appalti (già esplorato dal Ros) ritenendolo il movente della morte di Giovanni Falcone.

È proprio il riemergere di questo filone d’indagine il passaggio più terrificante della deposizione in aula del generale dei carabinieri Mario Mori imputato al processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Lo è perché rappresenta un nervo scoperto dei magistrati della procura di Palermo usciti comunque malconci dall’archiviazione del 2000 sulle accuse del pentito Siino che indicava alcune toghe eccellenti quali «gole profonde» di Cosa nostra a cui avrebbero fatto avere il dossier. Roba esplosiva che segnò una frattura insanabile fra i militari e i magistrati palermitani. Il generale Mori, sul punto, fa capire che il dossier del Ros, e non il fantomatico papello, c’entra con le stragi del ’92.

Mori racconta di come Giovanni Falcone a un certo punto insiste per avere in anticipo l’informativa. «Mi dice che ci sarebbe stato utile il suo avallo nel prosieguo dell’indagine che, a suo dire, non tutti vedevano di buon occhio e alcuni sicuramente temevano». Falcone gli confida che l’allora procuratore Giammanco «non dava valore all’informativa, reputandola interessante solo politicamente», e in questa veste la invia al Guardasigilli Martelli «che gliela rimanda indietro senza nemmeno leggerla». Fra marzo e aprile Mori discute del dossier in più sedi finché la procura, a sorpresa, su 44 richieste d’arresto del dossier ne concede solo 4: «L’esito fu per me molto deludente e non lo nascosi affatto». Il generale se ne lamenta con Falcone quando «l’insoddisfazione diviene sconcerto allorché ai difensori degli indagati è consegnata copia integrale dell’informativa e non degli stralci sui singoli indagati». L’inchiesta è compromessa. È l’inizio della fine. Il 12 marzo viene ucciso Salvo Lima, di cui l’informativa si occupa a lungo. Il 4 aprile, ad Agrigento, tocca al maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli che era stato avvicinato dal pentito Angelo Siino, gola profonda dei carabinieri. Poi è eliminato il giudice Falcone. «Le morti sono legate da un unico disegno criminoso: bloccare l’inchiesta mafia-appalti».

Tant’è. «Dopo Capaci - attacca Mori - ebbi ripetuti contatti telefonici con Borsellino, finché il magistrato mi disse che voleva parlarmi riservatamente con il capitano De Donno. Ci vedemmo il 25 giugno ’92 (due giorni dopo aver saputo dalla Ferraro, braccio destro di Falcone, della presunta trattativa Ros-Ciancimino, ndr) e disse che «non voleva che qualche suo collega magistrato sapesse dell’incontro». Borsellino - insiste Mori - riteneva «importante la prosecuzione dell’inchiesta mafia-appalti che rappresentava un salto di qualità investigativo per individuare gli interessi profondi di Cosa nostra», costituendo per lui «uno strumento per addivenire all’individuazione dei responsabili della morte di Falcone».

La circostanza è confermata da quel pm Ingroia che, però, oggi indaga su Mori e sulla trattativa Ros-mafia. «Borsellino ci delegò un’attività mirata alle iniziative economiche della mafia, puntando sugli appalti» aggiunge il generale. Che in un successivo incontro con Borsellino riceve questa indicazione: «L’inchiesta mafia-appalti è la causale della morte di Giovanni Falcone. Borsellino ci raccomandò la massima riservatezza sull’incontro e i suoi contenuti in particolare nei confronti dei colleghi della procura di Palermo». Borsellino e il Ros si incontrano di continuo. Lavorano in simbiosi fino all’11 luglio 1992. Nove giorni dopo esplode il tritolo in via d’Amelio: «Il giorno successivo la bomba - chiosa Mori - mentre non era ancora aperta la camera ardente, veniva depositata la richiesta di archiviazione della procura di Palermo sull’inchiesta mafia-appalti». Terrificante.
Sul resto, sui rapporti che si vogliono per forza «oscuri» con Ciancimino, Mori ha ripetuto quanto già anticipato dal Giornale. E cioè che non vi fu alcuna trattativa con la mafia («una banda di volgari assassini») e che se Ciancimino venne avvicinato quattro volte (la prima dopo la morte di Borsellino) «fu solo per realizzare un contatto confidenziale» che potesse fare luce sui rapporti tra mafia e politica. Del rapporto venne avvertito l’ex presidente dell’Antimafia Violante, che ancora ieri ha ripetuto che Ciancimino voleva incontrarlo riservatamente e che lui disse no, circostanza smentita dagli atti della commissione da lui presieduta.

«Dei contatti con Ciancimino informai Violante», giura Mori. Esattamente il 20 ottobre ’92, due giorni dopo aver ricevuto dall’ex sindaco la disponibilità ad essere udito in Antimafia: «Ritenni potenzialmente rilevante quella disponibilità poiché Ciancimino impersonificava la sintesi dei rapporti collusivi fra mafia, politica e imprenditoria», la sintesi del dossier del Ros. «Informai Violante dell’inizio del rapporto con Ciancimino e della sua volontà di essere sentito». Secondo Mori, Violante gli chiese se aveva informato la procura, e lui rispose di avvalersi della facoltà di non rilevare la fonte confidenziale.

«Precisai che, in quel momento, ritenevo doveroso informare della mia attività lui che era titolare di una funzione istituzionale equiparabile a quella della magistratura» e che si riservava di farlo con i pm di Palermo «quando sarebbe arrivato il nuovo procuratore. Violante non replicò. Sino a pochi giorni or sono ho ritenuto che approvasse il mio atteggiamento».

In caso contrario, «avrebbe avuto tutta l’autorità per informare, di un comportamento giudicato non corretto, sia la magistratura che i miei superiori». Se Violante non l’ha fatto, un motivo c’era. Se era d’accordo allora, perché sostenere il contrario con diciassette anni di ritardo?

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