Pappi Corsicato non entusiasma Ma la Murino vale l'intero film

"Il seme della discordia", quarta pellicola italiana in concorso assomiglia a un affresco almodovariano: tante donne belle e complicate. Il regista: "È uno sguardo divertito sulla vita"

Pappi Corsicato non entusiasma  
Ma la Murino vale l'intero film

Venezia - Si può capirlo, Pappi Corsicato, napoletano, classe 1960. A poche ore dal debutto ufficiale in Sala Grande confessa: «Non sono in ansia, sono nel panico!». Il suo precedente film, Chimera, risale a sette anni fa. Un insuccesso, dal quale non è stato facile risalire. Con Il seme della discordia approda in concorso nel ruolo del quarto italiano scelto in extremis. Müller l'ha voluto ad ogni costo, dietro c'è Medusa, che distribuisce da ieri in 225 copie. Ma la tensione resta, anche se all’unica proiezione stampa molti hanno applaudito.

Il regista più almodovariano d'Italia affronta i giornalisti con piglio allegro. Al suo fianco la protagonista Caterina Murino, molto ammirata e ormai lanciatissima (era una Bond girl in Casinò Royale), e le altre: Isabella Ferrari, Martina Stella, Valeria Fabrizi. Poi gli uomini: Alessandro Gassman e Michele Venitucci. Ma basta vedere il film per accorgersi che Il seme della discordia, pur evocando temi seri come l'inseminazione artificiale e l'aborto, è un monumento colorato e gioioso a una certa femminilità mai passata di moda. Tacchi alti, abiti aderenti, scollature mozzafiato, rimmel, rossetto... Del resto, al pari dell'amico Almodóvar, Corsicato ha una sensibilità speciale nel raccontare la testa e il corpo delle donne, come attesta il suo film d'esordio, Libera.

La storia, ridotta all'osso. Veronica, giovane e statuaria trentenne napoletana scopre un giorno di essere incinta, peccato che il marito, nelle stesse ore, apprenda di essere sterile. Di chi sarà mai il seme della discordia? «Il mio è uno sguardo divertito e divertente sulla condizione umana, certamente privo di ogni moralismo», spiega Corsicato. Ha voluto costruire il film, molto glamour-kitsch, surreale, denso di gag, citazioni cinematografiche e musicali (l'immancabile Balla ragazzina di Mina), partendo da un'idea: «Volevo che l'apparente perfezione estetica di tutti i personaggi si scontrasse con l'imperfezione delle loro esistenze. La sfida consisteva nel raccontare una storia drammatica in chiave non naturalistica». Così, in una Napoli ultramoderna e specchiata, l'opposto di Gomorra, Veronica si trova a fare i conti con incognite sessuali e sorprese affettive.
Caterina Murino nel film ricorda un po' la Loren di La fortuna di essere donna. «Pappi ci ha fatto penare, ci voleva belle e sensuali fuori, disastrate e incasinate dentro. Un mix di Sophia e Dalida. È stata dura. Non potete immaginare le prove: il maglioncino, il tacco, l'abituccio, la borsa, il trucco, rimmel sì rimmel no... Un perfezionista». A un certo punto, magari in omaggio alla Edwige Fenech dei tempi d'oro, Veronica è ripresa di fianco mentre fa la doccia, il corpo cosparso di schiuma, il lato B bene in vista. Scena stracult. Lei precisa: «Le scene di nudo non sono il mio forte. Per questo ho chiesto che ci fosse schiuma dappertutto, di ogni tipo, montata col frullino per renderla più solida e resistente all'acqua». Pare che ci siano stati problemi comunque, così come con la scena onirica, ripresa dal manifesto, che mostra il corpo di Veronica cosparso di gigli.

Valeria Fabrizi, che fa la madre borbottona, sta al gioco: «Sono contenta d'essere stata messa nel girone delle belle. Nonostante l'età, ancora me la cavo, senza bisogno di ritocchi». Mentre Martina Stella, la commessa birichina, dipinge il personaggio come «ironico, grottesco, surreale, anche mutevole» (per via delle parrucche).

Isabella Ferrari, coprotagonista di Un giorno perfetto di Ozpetek, qui si ritaglia - «per amicizia e stima», dice - un ruolo di barista sexy gravata dai quattro figli avuti da uomini diversi (due sono davvero suoi). «Ho provato a cogliere l'emozione del gesto, del capello, di qualcosa che è in superficie. Sapendo che la superficie può essere interessante quanto la profondità. Ce lo insegna la pop art».

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