Parla la vedova dell’uomo ucciso per un parcheggio. La figlia quattordicenne ha scritto a Napolitano: «Stiamo impazzendo, ci aiuti a lasciare Palermo» «Ogni giorno incontro gli assassini di mio marito»

«Una sentenza scandalosa: una vita vale solo sei anni? Ci chiedano almeno scusa»

da Palermo

«Per portare via i miei figli da questa città sono disposta anche a fare lo sciopero della fame. Qui, abitando a due passi dalle persone che hanno ucciso il loro papà, loro non sono sereni, non possono esserlo. E la serenità dei miei figli è ormai l'ultima cosa che mi è rimasta...».
C'è amarezza nelle parole di Irene Librera. L'amarezza e la determinazione di una giovane vedova di 34 anni con quattro figli - Massimiliano, il più grande, ha 16 anni, Maria Chiara, la più piccola, 6 - esasperata da una situazione d'inferno, quella che lei e i suoi figli vivono, giorno dopo giorno, dal 2 ottobre del 2004, quando suo marito, Simone La Mantia, 37 anni, urtò, facendo manovra, l'auto di un impresario di pompe funebri, e venne picchiato a morte, dallo stesso impresario e dal figlio, sotto gli occhi atterriti suoi e della piccola Maria Chiara, che all'epoca aveva quattro anni. Una ferita mai chiusa, che si è drammaticamente riaperta qualche giorno fa, visto che, col rito abbreviato, è stato condannato a sei anni, per omicidio preterintenzionale, solo l'aggressore più anziano, Salvatore Mannino, mentre il figlio, Natale, è stato assolto. Non fu il pestaggio, ha stabilito il giudice, a uccidere Simone La Mantia, ma solo uno dei pugni, quello al collo sferrato da Salvatore Mannino. Di qui la condanna lieve: appena sei anni, e per di più con sentenza inappellabile, o meglio, appellabile sì, ma solo dalla difesa degli imputati per essere eventualmente diminuita, e dalla parte civile per quanto riguarda il risarcimento (30mila euro a familiare, 150mila euro in tutto a fronte di una richiesta di 500mila euro, ndr). «È una sentenza scandalosa - continua la signora Librera -, vale solo sei anni la vita di un uomo, la vita di mio marito? Per questo voglio andar via, ricominciare lontano da questa città, da questo quartiere dove continua a vivere indisturbato chi ha ucciso mio marito».
Al danno di questo dramma, si aggiunge infatti la beffa di abitare a poche centinaia di metri dal luogo in cui si trova l'impresa di pompe funebri davanti alla quale si è consumata la tragedia. E così Giulia, 14 anni, la seconda dei quattro figli di Simone e Irene, è costretta a passare ogni giorno davanti al negozio dell'assassino di suo padre - libero, fino a quando la sentenza non diventerà definitiva - per raggiungere la vicina scuola. Un incubo, per una ragazzina che tra le mille fobie legate al trauma si porta pure il timore di uscire per strada. A farsi portavoce del desiderio della madre e dei fratelli di ricominciare una vita nuova lontano da Palermo è stata due giorni fa proprio Giulia, che ha scritto un'accorata lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: «La prego - ha scritto la ragazzina, che frequenta la II media - ci aiuti a ritrovare la pace che abbiamo perso quel maledetto ottobre». «Giulia - dice la signora Irene - ha fatto quello che avevo pensato di fare io. La bambina sta vivendo un momento difficile, è seguita da una psicologa così come tutti i miei figli. Ha spesso delle crisi, anche a scuola ha pochi amici. Le insegnanti mi hanno raccontato che piange quando sente l'Inno di Mameli, perché le ricorda il padre, quando vedevano insieme le partite di calcio della Nazionale...».
Frammenti di una vita distrutta in un lampo. Come quella di Maria Chiara, che il papà se l'è visto uccidere sotto gli occhi: «La bambina - dice la madre - ricorda tutto. Quel maledetto giorno (il 2 ottobre del 2004 era un sabato, ndr) era contenta, aveva compiuto 4 anni cinque giorni prima, il lunedì dovevano fare una grande festa per lei. E invece il lunedì ci sono stati i funerali di Simone... Non è serena, come può esserlo? Sì, ride, gioca. Ma ogni tanto si astrae, pensa ai mostri, così chiama chi ha ucciso il suo papà».
Nella lettera al Capo dello Stato la piccola Giulia accenna ad una città «dov'eravamo stati - scrive - con il mio papà e dove dovevamo andare tutti insieme». «Giulia si riferisce a Salerno - spiega la signora Irene - è lì che ci piacerebbe andare. Con mio marito pensavamo di trasferirci lì tutti insieme, prima della tragedia. E lì vorremmo tornare. Anche il pediatra mi ha consigliato di portarli via, cambiare ambiente potrebbe servire a superare il trauma».
Sinora la signora Irene non ha ricevuto alcuna offerta, né da Salerno né da alcun luogo lontano dalla Sicilia. Attualmente lavora all'Amg, l'azienda del Gas di Palermo di cui era dipendente suo marito, che dopo la tragedia le ha offerto un posto. «Ma questo - dice - è stato uno dei pochi atti di solidarietà concreta. A eccezione dei miei avvocati, Salvino Pantuso e Vincenzo Lo Re, pochi si sono ricordati di noi dopo la morte di mio marito. Ha idea di cosa vuol dire festeggiare un padre per la festa del papà portando le letterine al cimitero? O quanto è drammatico il Natale?».
Un incubo quotidiano.

Un incubo che Irene e i suoi quattro figli vogliono scacciare via. «Non chiedo troppo - dice la signora Librera -, solo un lavoro e un alloggio. Ma non qui». A chi ha ucciso suo marito, solo poche parole: «Si pentano. Si pentano e chiedano scusa almeno ai miei figli».

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