La Borsa, che secondo gli esperti ha già in buona parte scontato l’effetto-Libia, oggi si trova ad affrontare nuovamente il tema Parmalat, ma con un elemento in più rispetto all’ultima seduta: il possibile coinvolgimento del gruppo Ferrero, che nell’arco di pochi giorni dovrà uscire allo scoperto per dire se è disposto a no a impegnarsi nell’operazione. Le incognite sono molte e la convinzione più diffusa è che, in previsione dell’assemblea del 14 aprile e in considerazione di un assetto societario ancora fluido, ci possa essere nei prossimi giorni una caccia ai diritti di voto; in altre parole, una rincorsa alle azioni.
La partita è aperta. I soggetti con ruoli da protagonisti sono tre: i fondi MacKenzie, Skagen e Zenit, ai quali appartiene il 15% del capitale; Lactalis, che possiede una quota potenziale del 14%; Intesa Sanpaolo, detentrice di una quota del 2,4%, ma sulla quale si stanno concentrando le attese di tutti quelli che tengono alla difesa dell’italianità del gruppo. Intesa ha stabilito un contatto con il gruppo Ferrero, che, a denti stretti, ha persino ammesso «interesse». Sullo sfondo, un quarto protagonista: il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che si è detto pronto a un provvedimento per tenere lontani gli stranieri dalle imprese strategiche per l’Italia. Già l’effetto-annuncio deve aver provocato qualche riflessione a Parigi.
I giochi sono aperti a qualunque mossa. Da un’Opa di Lactalis, che così taglierebbe la testa al toro accontentando il mercato (finora aveva espresso la volontà di fermarsi al 29%) e anticipando le iniziative di Tremonti; a una mossa analoga di Ferrero-Intesa; a un più lento coagularsi di una maggioranza, anche dopo l’assemblea del 14 aprile. I fondi per loro natura sono venditori; tuttavia in questo caso hanno già speso qualche dichiarazione in favore della bandiera italiana.
Ma è Ferrero a tener desta la curiosità. Che cosa farà il gigante di Alba - che è assistito da Mediobanca - nessuno per ora lo sa, ma un «paletto» è certo, a scanso di qualche equivoco dei giorni scorsi: Intesa non sta organizzando una «cordata», ma è pronta a sostenere e accompagnare un partner industriale con un progetto importante. Ferrero, inoltre, non ammetterebbe di avere in casa i francesi di Lactalis. Se l’operazione si definisse con il gruppo dolciario come nuovo azionista, non ci sarebbero problemi antitrust, visto che le differenze delle due aziende superano le analogie. L’Antitrust potrebbe dover dire la sua, invece, se il passo successivo fosse quello di aggregare a Parmalat anche Granarolo, di cui Intesa è azionista con circa il 20%, e il resto del capitale è diffuso in un’ampia platea cooperativa, seppure organizzata.
Ma quanto denaro occorre per comprarsi Parmalat? Venerdì il titolo ha chiuso a 2,6 euro (solo un mese fa era a 2,2), ma è ancora lontano dai 3,2 euro toccati nel gennaio 2007. La capitalizzazione in Borsa, ai prezzi più recenti, è di circa 4,5 miliardi e un’Opa - prendendo questi parametri - non potrebbe non prevedere almeno 500 milioni di premio agli azionisti. Insomma, occorrono all’incirca 5 miliardi. Ma il gruppo, che fattura 4,3 miliardi e ha un margine operativo di 380 milioni, ha in cassa 1,34 miliardi liquidi che rappresentano l’eredità di Enrico Bondi. In altre parole: l’acquisto della società è ampiamente a sconto.
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