Pd, la storia del partito che non è mai nato Ds e Margherita sono separati in casa

Le sedi si moltiplicano, i patrimoni restano divisi, persino sulle nomine Rai le due correnti che fanno capo a Franceschini e Bersani trattano ognuna per sè. Il trasversalismo tra ex Quercia e ex Dc si ferma a pochi esponenti

Pd, la storia del partito che non è mai nato 
Ds e Margherita sono separati in casa

È il congresso dei separati in casa. Da una parte quasi tutti gli ex diessini, dall’altra quasi tutti gli ex popolari e i rutelliani. Ciascuno dei due campi vanta personaggi di altra storia. Rosy Bindi e Enrico Letta con Bersani, Piero Fassino e Marco Minniti con Franceschini. Ma il traversalismo si ferma a pochi nomi, la divisione resta netta, il partito unico è ancora la somma di almeno due partiti che non riescono a fondersi e che ogni volta che sono sul punto di prendere decisioni comuni scoprono di essere più divisi che mai. Innanzitutto si sono moltiplicate le sedi in cui vivono gli stati maggiori. Dario Franceschini domina il suo staff da piazza del Nazareno, già sede della Margherita, mentre Bersani ha insediato il suo ponte di comando accanto alla vecchia sede dell’Ulivo a piazza Santi Apostoli, dove peraltro sopravvive una enclave prodiana. I vecchi Ds, invece, mantengono a via Palermo non solo una rappresentanza giuridica della vecchia ditta ma anche tutti i dipendenti che il nuovo Pd non ha voluto assorbire. Poi ci sono le fondazioni, in primis quella di D’Alema a piazza Farnese. Il moltiplicarsi dei centri di decisione e di studio sarebbe una risorsa se il partito riuscisse a tenere assieme almeno alcune funzioni fondamentali e funzionasse come un organismo unitario. Invece prevale il sospetto che ogni sede sia una fonte di autonoma iniziativa politica.
Per Franceschini e gli ex popolari tutto dipende dal fatto che gli ex Ds non si vogliono sciogliere e, a prova di ciò, lamentano che gli ex comunisti non hanno voluto conferire il loro patrimonio nel nuovo partito. È un atto d’accusa che segue quello che fece a suo tempo Walter Veltroni e che ha ripetuto il tesoriere del Pd Mauro Agostini. Gli ex Ds neppure accettano di discutere l’argomento e alle lamentele dei nuovi fratelli oppongono un indignato silenzio.
In effetti il patrimonio diessino è cospicuo. Ci sono 2.399 immobili sparsi per tutta Italia oltre alle 400 opere d’arte - si parla di Vespiniani, Guttuso, Schifani e altri - che sono state regalate al partito dal dopoguerra fino agli anni scorsi. Il tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti, uomo brusco e di poche parole, non vuole neppure affrontare l’argomento con i suoi colleghi della Margherita e del Pd. «Il tesoretto - questa è la spiegazione - serve a ripianare un debito del vecchio partito che ammonta a 160 milioni di euro oltre che a garantire gli stipendi ai funzionari che il Pd non ha voluto assumere». Se i debiti restano a noi, dice Sposetti, a noi resta il «tesoretto» che è stato spartito in 60 fondazioni che lo amministrano. Se c’è una trincea su cui Sposetti può morire è quella del rifiuto di conferire questi beni accumulati negli anni al nuovo partito e affidarli alla dissipazione dei suoi dirigenti piddini con i loro inutili meeting e le televisioni. Franceschini ha provato a fare la voce grossa ma non riuscirà a spuntarla. In verità chi conosce Sposetti sa per certo che nel caso vincesse il congresso Franceschini l’argomento sarebbe chiuso per sempre, ma anche di fronte al segretario Bersani l’ex tesoriere dei Ds resisterebbe a brutto muso. «Siamo in regime di separazione dei beni», sospira Sposetti, ma forse la ragione è un’altra ed è che nessuno crede che i due partiti diventeranno mai un solo partito e che non è saggio mettere a repentaglio un tal patrimonio per una convivenza destinata a non durare o ad essere molto travagliata.
L’esistenza di due partiti che si combattono fra di loro senza tregua è portata alla luce anche dalla vicenda della Rai. Ormai il ciclo delle nomine è stato quasi completato. Manca una sola casella con due posti: Rai Tre. Il Pd dopo aver tanto tuonato contro la lottizzazione delle altre reti non riesce a trovare una lottizzazione che soddisfi le sue diverse anime e soprattutto quella margheritica e quella diessina. I candidati sono tre. Sono in corsa Bianca Berlinguer per il Tg3 e Antonio Di Bella e Paolo Ruffini per la Rete. Il problema nasce perché Ruffini è un democristiano di antico conio che non vuole lasciare la rete e che ha ricevuto da Franceschini e dai suoi la promessa di essere riconfermato, mentre Bianca Berlinguer dovrebbe competere con lo stesso Di Bella per la guida del Tg in quota Ds e in particolare in quota dalemiana. I due schieramenti piddini contrapposti non si stanno fronteggiando in furiose riunioni di partito ma ciascuno dei due affida alla trattativa diretta con il direttore generale Masi le sorti del proprio candidato. Rai Tre è diventato, quindi, il luogo della battaglia più dura fra le due anime del Pd. I più esperti dicono che l’unica via d’uscita è rinviare ogni decisione al dopo congresso. Sarà il vincitore dell’assise a impadronirsi della poltrona televisiva più ambita ovvero potrà scambiarla con un patto di potere con lo sconfitto.


Se le cose stanno così la celebrazione del congresso rischia di essere una formalità senza senso. In un partito così balcanizzato sarebbe meglio affidare a rotazione la presidenza a uno dei soci fondatori e mantenere le distinzioni originarie. Così almeno il patrimonio e il Tg avrebbero una destinazione tranquilla.

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