Il Pd vede Napoli e poi muore

È un uomo in fuga che tutti prendono a calci. Qualche volta viene la voglia di strappare il capo dell’opposizione da questo inverno senza orizzonti, dove piove senza sosta. Quello che resta è una lenta agonia politica. Walter Veltroni ha cercato di rubare le parole e l’ottimismo ai Kennedy e agli Obama, ma il suo destino ricorda, in questa stagione, un certo John Forbes Kerry, il wasp bostoniano, l’uomo per cui i liberal americani hanno cantato, sorriso, straparlato, fatto outing. E poi messo da parte, come una sconfitta, come un’illusione, come il disperato tentativo di rituffarsi in un’incerta età dell’oro. Falsa, come il cartongesso di Hollywood. Qualche giorno fa Scarlett Johansson raccontava la sua disillusione per Kerry: «Quattro anni fa pensavo fosse l’uomo giusto. Lo era? Evidentemente no, se non ha saputo convincere gli americani». L’America si sbarazza in fretta delle sue delusioni. In Italia le tengono in vita, staccandogli un pezzo di pelle alla volta.
Veltroni sembra finito. Enzo Mauro lo crocifigge con un editoriale su Repubblica, bastano poche parole finali: il Paese in crisi avrebbe bisogno di un pensiero e di una politica davvero alternativa alla destra. Indulgenze e ritardi sono peggio che errori: sono colpe. Senza indulgenze, appunto. Questo scrive Mauro e il Pd lo segue, da destra e da sinistra. Chiamparino, sindaco di Torino, evoca un «gabinetto di crisi» che guidi il Pd nei prossimi mesi. È un polmone d’acciaio che tiene in vita la leadership di Veltroni fino alle europee. Poi qualcuno staccherà la spina. È un commissariamento, con i rappresentanti di tutti i territori. È la rivolta del partito dei sindaci. Arturo Parisi sembra consumare la vendetta di Prodi, lo spettro dell’Ulivo, e non perde un attimo, di fronte alla tempesta giudiziaria che cade sul Pd, a sbattere in faccia a Veltroni una semplice domanda: «Veltroni, sei proprio sicuro di essere tu il nuovo?». Ciò che accade nelle periferie degli assessori non si può liquidare con un «roba vecchia». Non è un’eredità democristiana. Lo scudo della presunta «diversità antropologica», tanto cara a Berlinguer, questa volta non regge. Non basta. La melma sale e fa rumore.
È certo che il suo popolo non ci crede più. Basta rubare una conversazione in treno per fotografare la disillusione. Un professore replica alle ultime speranze del suo compagno di viaggio: «Ha perso tutte le elezioni. Ha sbagliato alleato. Non ha unito il partito, diviso in mille correnti. Ha fallito il rinnovamento. Non ha affrontato la questione morale. Non è stato in grado di dialogare sulle riforme. Ha portato il Pd allo sbaraglio, vedi vigilanza Rai e quel cavolo di Villari che gioca a fare Napoleone: Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca. Ti pare che posso ancora avere pazienza?».
La bella stagione di Veltroni è appassita, e in terra sono rimaste promesse rancide, che sanno di muffa. E gli errori, tanti. L’uomo vestito di nuovo, il profeta di una sinistra diversa, moderna, orfana felice delle ideologie, senza parolai rossi, quasi elegante nel suo bon ton, pronta a danzare come una libellula e pungere come un’ape, si è ritrovato con un partito liquido, dove l’identità è una macedonia venuta male, perché non basta traslocare da Botteghe Oscure a un loft per non sentirsi vecchi. Il Partito democratico si porta dietro una vaga suggestione americana, ma dentro è una babele. I democristiani di sinistra non vogliono morire comunisti. Gli ex Pci si sentono tuttora, malgrado tutto, l’avanguardia di qualcosa. Non importa cosa. La realtà è che questo papocchio chiamato Pd non ha una rotta, non ha una cultura, non ha una visione del mondo. Orecchia. Sfodera un «we can» e pensa: tanto dall’altra parte stanno peggio.
Poi è arrivato Di Pietro. Doveva essere solo un piccolo alleato, uno utile per raccattare un po’ di voti viscerali, figli di Tangentopoli e dell’antiberlusconismo. Doveva essere la variante giacobina del Pd, tanto per non farsi rompere le scatole da quelli di Micromega. Così non è stato. Di Pietro ha preso la scena, con il trattore populista e la toga nel cuore. Veltroni lo ha prima ignorato, sottovalutato, poi inseguito, con l’affanno del buonista scamiciato. Di Pietro in quattro mosse se lo è mangiato. La beffa è che mentre l’ex magistrato inventava il «partito etico», Veltroni vedeva il suo partito alluvionato di atti giudiziari. Arrivano le elezioni in Abruzzo e i numeri svelano tutta la verità. Di Pietro guarda lo sconfitto e predica: «Il Pd rifletta e faccia un bagno di umiltà». È la frase più perfida da dire al proprio compagno di doppio dopo una sconfitta. A questo punto a Veltroni non resta che dimettersi o spaccare la racchetta in testa al suo alleato, qualcosa in stile anni ’70, tipo Ilie Nastase.

Non farà né l’uno né l’altro, sapendo che in Italia la vita politica è una maratona senza fine. E questa per ora è ciò che lo separa da una vita da Kerry. Come dice Parisi: «Siamo vicinissimi all’Ohio, ma l’Abruzzo è lontanissimo».

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