Pedofilia, famiglia distrutta in attesa d’appello

Valeria, la figlia più grande, ha compiuto 18 anni il 14 ottobre 2005. Lorena, la mamma, non se l’è sentita di andare a scuola, a Reggio Emilia, e di abbracciare quella ragazza che non ha più visto, insieme ai tre fratelli, dal 12 novembre 1998, giorno in cui la polizia si presentò a casa di Lorena e del marito Delfino a Massa Finalese. «La mattina del 14 ottobre mia cognata Annarosa ha aspettato Valeria all’uscita dell’istituto magistrale. Solo che Valeria appena l’ha vista ha cominciato a gridare: “Vai via, tu non se più mia zia, Lorenza e Delfino non sono più mamma e mio papà. Non vi siete mai fatti vedere in sette anni, mi avete mandato solo due cartoline”. Secondo mia cognata, c’era pure qualcuno che la controllava a distanza».
La voce di Lorena al telefono arriva impastata di lacrime e francese. Ormai è sette anni che la donna vive in Provenza. Lì è nato il quinto figlio Giovanni (il nome vero, naturalmente è un altro), lì Lorena ha tentato di costruire, dopo le terribili amputazioni da parte della legge, una seconda vita: provvisoria nelle intenzioni, sempre più cronica nella realtà.
«Eravamo una famiglia normale: io insegnavo all’asilo parrocchiale, i miei figli andavano a scuola e al catechismo, ogni tanto Delfino li portava a San Siro a vedere il Milan. È tutto finito. Per sempre. Prima ce li hanno portati via, sostenendo che partecipavamo a orge e messe nere al cimitero del paese. Poi, come se non bastasse, hanno aggiunto che Delfino li violentava. Tutti e quattro. E io lo incitavo. Ci hanno condannati a 12 anni nel settembre 2002, poi non ho saputo più nulla. Né dei figli. Né del processo d’appello: ma io l’appello lo attendo con ansia, i miei avvocati l’hanno sollecitato. Nulla».
È quasi cinque anni che si aspetta a Bologna il dibattimento di secondo grado, in uno dei tanti tronconi dell’indagine sulla pedofilia nella Bassa modenese. Don Giorgio Govoni, il presunto prete satanico, morì d’infarto alla vigilia della sentenza nello studio del suo avvocato, fu lapidato dalle parole del verdetto, riabilitato al secondo giro. Tutto troppo tardi. È troppo tardi anche per Lorena, comunque vada a finire: «Ormai non so più cosa augurarmi. Cerco di crescere questo figlio, ma sto male tutti i santi giorni quando lui mi chiede: “Perché i miei fratelli non vengono mai a trovarmi?“ Ormai le nostre vite sono distrutte».
Adesso Lorena piange e le lacrime sono la colonna sonora di nove anni di accuse devastanti e, secondo la difesa, irreali, incredibili, persino folli; nove anni per non arrivare ad alcuna certezza, per aggrapparsi alla speranza di un colpo di scena, per fuggire in Francia con l’aiuto della Chiesa, per accettare l’idea più inaccettabile per una mamma: i figli sono vivi, ma in realtà sono morti quel 12 novembre 1998. «Ce li hanno tolti, li hanno interrogati non so quante volte, poi all’improvviso tutti e quattro hanno preso ad accusarci. Io scrivevo, telefonavo, chiedevo notizie, piangevo, picchiavo il pugno sul tavolo, imploravo preti e politici e assistenti sociali: non è servito a nulla. E ora Valeria grida: “Andate via, andate via voi che vi siete dimenticati di me per tutto questo tempo”. Io non conosco le storie di Rignano Flaminio, ma tremo per la disinvoltura con cui psicologi ed esperti costruiscono i capi d’imputazione».


Lorena saluta: «Chissà, forse un giorno sarà lui, Giovanni, a cercare i fratelli e a raccontare che la mamma e il papà li hanno aspettati tutti i giorni della loro vita; o forse, mi basterebbe anche questo, forse fra dieci anni, o anche fra venti, uno di loro aprirà gli occhi e capirà: mamma e papà hanno speso la vita per i loro ragazzi anche se a tutti e quattro hanno fatto credere la più orribile delle menzogne: avere un papà e una mamma cattivi, incapaci di voler bene. Un giorno anche uno solo di loro ricorderà l’infanzia felice e la famiglia che si riuniva intorno a un tavolo».

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