Sabina Nuti è la rettrice della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, ateneo d'eccellenza, al quarto posto nella classifica mondiale delle migliori università con meno di 50 anni. Così risulta dal Times Higher Education Ranking, l'unico sistema di classificazione delle performance che tiene conto di tutte le principali attività di un'università, quindi didattica, ricerca, trasferimento tecnologico e visibilità internazionale. In un momento in cui la scuola italiana sembra snobbare merito e disciplina scadendo a ente socio-assistenziale, è una boccata d'ossigeno confrontarsi con realtà d'eccellenza.
Siamo il Paese europeo con la più alta incidenza di studenti fuori corso. Altrove - a partire dalla Scuola Sant'Anna - il fuori corso non è nemmeno contemplato. L'anomalia siete voi o è il resto del sistema?
«I nostri allievi vengono ammessi dopo un concorso pubblico nazionale, devono mantenere una media non inferiore al 27 ed essere in pari con gli esami. È così che dimostrano il loro merito, premiato con la possibilità di risiedere nel collegio, con l'esonero dal pagamento delle rette e la possibilità di svolgere un percorso formativo integrativo e aggiuntivo alla formazione dell'Università di Pisa in primo luogo ma anche di Firenze e Trento. Stiamo parlando di ragazzi la cui formazione è finanziata da tutti i cittadini italiani e per i quali attenersi a tali parametri è dunque un dovere. Per il resto, il sistema universitario italiano prevede rette che, va notato, anche nella fascia massima, coprono soltanto una percentuale dei costi. Questo per dire che stare al passo con gli esami è anche una forma di rispetto per tutti noi cittadini italiani che contribuiamo alla sostenibilità del sistema universitario. Detto questo bisogna aggiungere un'altra cosa».
Prego...
«I ragazzi non sono tutti uguali, c'è chi decide di abbinare il lavoro allo studio oppure di fare esperienze all'estero per un anno. Credo che ad ogni studente vada riconosciuta la libertà di costruirsi il proprio percorso. Anche da noi ci sono stati ragazzi bravissimi che a un certo punto hanno avuto un periodo di stallo per poi riprendersi. Non esiste una regola assoluta, da applicare rigidamente. Ritengo possibile che uno studente possa decidere di interrompere per un anno gli studi per svolgere una esperienza lavorativa mentre sono molto meno favorevole a permettere che vi siano studenti fuoricorso che allungano per anni il loro percorso. Sono loro i primi ad esserne danneggiati».
In Italia si crede poco all'istruzione come strumento capace di fare la differenza.
«Il tema è proprio questo. E fra i colpevoli inserisco anche alcuni media. Si è diffusa l'idea, errata, secondo la quale arriva in alto soltanto chi ha agganci e raccomandazioni, si crede che il merito non conti. In tema di meritocrazia c'è molto da fare, è vero. Però dire che lo studio, una laurea o un diploma non portano a risultati è un messaggio devastante e soprattutto errato. Devastante anzitutto laddove il livello socio-economico è più basso, perché se i genitori sono laureati è molto probabile che anche i figli si laureeranno - si calcola che il 90% dei figli di laureati conseguirà una laurea - mentre non è così per le famiglie di basso livello culturale, più inclini di altre a chiudere presto il ciclo di studi. Ma così facendo, queste famiglie condannano i propri figli a svolgere attività lavorative che, come dimostrano gli studi più recenti, sono le più colpite dagli effetti della crisi. E questo è tanto più drammatico quando a interrompere gli studi sono ragazzi brillanti non supportati dalle proprie famiglie».
Un tesoro che va sprecato.
«Ed è un peccato in generale, ma in particolare per un Paese come l'Italia: il nostro petrolio sta proprio nel capitale umano, nell'ingegno, nella capacità e nel talento, elementi che possono fare la differenza rispetto al resto del mondo».
E qui entra in campo «Mobilità sociale e Merito», progetto della Scuola Superiore Sant'Anna.
«È un programma di orientamento che ha valorizzato il merito e la mobilità sociale, svolto in collaborazione con il ministero dell'Istruzione. Abbiamo chiesto a tutte le scuole superiori di segnalarci i ragazzi meritevoli che, provenendo da famiglie con genitori con basso titolo di studio, con buone probabilità avrebbero potuto concludere gli studi anzitempo. Per loro abbiamo destinato un bando e ne abbiamo selezionati 120. Questi studenti sono stati affiancati da nostri allievi-tutor chiamati a dare fiducia, infondere coraggio, fornire informazioni sulle opzioni formative universitarie e illustrare gli strumenti di sostegno economico agli studi».
Gli studenti nei panni di mentori, dunque.
«Esatto. Perché il consiglio del fratello maggiore spesso fa più presa di quello del professore. È una comunicazione diretta, informale e orizzontale: grazie alla vicinanza anagrafica i nostri ragazzi sono più bravi a orientare».
I primi a incoraggiare chi merita non dovrebbero essere gli stessi docenti delle scuole superiori?
«In un mondo ideale sì. Tiziano Terzani, nostro ex allievo, per la precisione ex allievo del Collegio Medico Giuridico poi confluito nell'attuale Scuola Superiore Sant'Anna, arrivò da noi accompagnato dal suo professore del liceo. Ma quanti docenti oggi si fanno carico di riconoscere le capacità di ogni ragazzo, di accompagnarlo e supportarlo affinché valorizzi in pieno le sue potenzialità? Bisogna fare in modo che l'istruzione torni a essere un ascensore sociale. Sia nel senso di dare a tutti le stesse opportunità indipendentemente dal luogo e dalla famiglia di nascita, sia nel senso di valorizzare il merito, di andarlo a scovare anche tra chi non sa neppure di essere tanto capace.
È stato dimostrato che le persone preferiscono una equa disuguaglianza basata sul merito all'uguaglianza che non tiene conto del merito. Lei spesso ricorda i risultati di questa ricerca.
«Le persone non vogliono essere dei numeri, sono consapevoli della propria individualità, apprezzano il fatto che venga loro riconosciuto lo sforzo e il risultato raggiunto, anche tramite una remunerazione diversa da quella degli altri. Anche i bambini apprezzano che venga valorizzato l'impegno, per dire che è un bisogno connaturato all'uomo. C'è chi pensa che sia più gradevole e facile una vita che prevede la redistribuzione eguale delle risorse, ma non è così».
Quindi per lei che cosa vuol dire valorizzare il merito?
«Vuol dire proteggerlo e non disperderlo, e per farlo è necessario attivare una serie di azioni coerenti in linea con una progettualità lungimirante. Non è semplice articolare una società basata sul merito, ma alla lunga è una società che soddisfa di più le persone».
Cosa c'è alla radice di questa ritrosia tutta italiana a riconoscere e premiare il merito?
«Premesso che ogni cultura ha i suoi punti di forza e di debolezza, penso che alla base ci siano ragioni culturali e storiche. A differenza dei popoli a matrice protestante e calvinista, noi italiani siamo un po' meno rigorosi sul concetto di responsabilità personale, però questo non vuol dire che accettiamo una società che non tiene conto del risultato e del lavoro fatto».
Harvard, Stanford, Cornell: sono i colossi dell'istruzione universitaria mondiale, in testa alle classifiche, ma con rette in continua ascesa. C'è il rischio che questo sistema imploda?
«No, perché è un sistema misto. Le rette sono molto alte per gli studenti cosiddetti normali, però c'è grande attenzione nell'assicurare borse di studio ad allievi di talento. Infatti anche molti nostri allievi vengono ammessi ai corsi post lauream di questi atenei eccellenti. Sono università che si finanziano in parte con le rette e in parte grazie alla rete dei donatori. E nemmeno la crisi del Covid finirà per scalfire il doppio binario tipico di quel sistema, che ritroverà presto il suo equilibrio».
Un matrimonio tra filantropia e scuola che però in Italia sembra molto difficile.
«Sto lavorando molto per creare sinergie tra pubblico e privato. Nel gennaio di quest'anno abbiamo lanciato la Fondazione Talento all'Opera. Con un gruppo di imprese e istituzioni, in partenza erano sei ma ora sono già diventate dieci, vengono proposte azioni per valorizzare il talento, a tutti i livelli e in tutte le sue componenti, mettendolo all'opera, nel vero senso della parola. In Italia non abbiamo ricchezze nel sottosuolo, in compenso abbiamo teste spettacolari, dobbiamo valorizzarle, e aiutarle nel loro percorso. Da sempre le aziende vengono da noi, apprezzano i ragazzi, si complimentano e li assumono. Questo è certamente positivo, ma credo che l'impresa debba diventare partner del sistema formativo fin dalle scuole superiori, dovrebbe fare squadra con noi per supportare questi giovani così talentuosi, sostenerli nel loro percorso e non solo assumerli quando sono formati».
Perché si parla tanto di collaborazione fra impresa e università. Poi, però
«L'imprenditoria ha la tendenza a promuovere solo la ricerca che ha ricadute immediate sulla propria azienda. Salvo eccezioni è difficile trovare l'imprenditore che investe in maniera significativa nell'università, dinamica che invece è frequente nei grandi atenei internazionali».
Il vostro bilancio sfiora nel complesso i 60 milioni. Il 38% è frutto di ricavi propri. In cosa consistono?
«Arrivano da bandi per progetti di ricerca, per esempio della Commissione europea, da ministeri ma anche da privati: dove c'è una competizione a livello internazionale, i nostri team di ricerca, che hanno ottime performance gareggiano e si aggiudicano il finanziamento. È un dato unico in Italia, equivale più o meno a 150mila euro di finanziamenti medi annuali per docente. Come Scuola Superiore Sant'Anna non possiamo fare una comparazione diretta con gli atenei generalisti perché siamo diversi. Siamo una Research University che offre formazione integrativa di eccellenza a studenti universitari e percorsi di dottorato. La nostra missione è di essere apripista su tematiche ad alto impatto per il futuro. Siamo piccoli ma eccellenti e, nelle materie su cui ci concentriamo, vogliamo portare la presenza della voce italiana nel contesto internazionale».
La Scuola Sant'Anna è un'eccellenza e in quanto tale è competitiva. Lei quanto è competitiva?
«Nella mia vita non ho mai mollato però non sono stata ossessionata dal tempo. Ho avuto quattro figli, che ora hanno 31, 30, 27 e 24 anni. Non è stato facile ma mi sono fatta aiutare da baby sitter e ragazze alla pari e soprattutto ho condiviso l'impegno con mio marito che mi ha sempre sostenuto. Ai bambini ho dedicato tempo perché ogni bimbo e ogni mamma hanno bisogno di tempo e non ho voluto negarmi questi momenti di vicinanza. Quindi sì, mi sento competitiva, ma ho sempre pensato che il tempo è galantuomo, che sarei arrivata più tardi e che ce l'avrei fatta. Alle mie ricercatrici dico sempre: - Se volete un figlio, non pensate che domani sarà un momento migliore di oggi. Non c'è mai il momento migliore. Una maternità può essere una marcia in più per una donna, può essere fonte di motivazione e di crescita personale».
Da pisana, cosa ha fatto proprio del suo concittadino Galileo Galilei?
«In Duomo c'è la famosa lampada che ha ispirato tanto gli studi di Galilei. Da sempre ne sono affascinata, quand'ero bimba immaginavo lui fanciullo che la osservava e così, anziché star attenta alla Messa, la guardavo e riguardavo pure io.
Mi piacerebbe pensare che Galilei mi abbia trasmesso la voglia di guardare cosa c'è dietro le lampade della vita, dietro le cose, la curiosità di andare oltre gli schemi e di non accontentarsi delle apparenze. Ho detto: mi piacerebbe».
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