Equileo era bellissimo. Come il suo padrone. Aveva quattro anni quel cavallo che correva nel vento di San Siro trotto. Aveva quarantanove anni Alain Delon e, prima di godersi quello stallone sulla pista milanese, si fermò in un ristorante di corso Sempione, famoso per il risotto verde, colore dovuto alla lattuga. Chiese una saletta privata, per lui, Mirelle Darc e altri cinque amici. Ma quella sala era il luogo riservato da sempre, ogni domenica, ad una coppia di fedelissimi clienti. Il titolare del ristorante informò Delon e l’attore accettò che ai due clienti venisse confermato il tavolo. Finito il pranzo, Delon si affrettò ad uscire mai per ultimo, si muoveva sempre sospettoso, come avesse qualcuno alle spalle, le frequentazioni e i legami con i voyous marsigliesi lo avevano messo in avviso. Non appena l’attore e la sua brigata scomparvero dalla sala, la fedelissima cliente piombò sulla tazzina di porcellana con la quale Delon aveva bevuto il caffè, la avvolse in un tovagliolo, chiuse i quattro angoli, poi, rivolgendosi al proprietario del ristorante, quasi lo minacciò: "Mi chieda qualsiasi cifra ma questo non lo mollerò mai".
Quante tazzine di caffè avrà bevuto Alain Delon nella sua vita di angelo e diavolo, onesto e delinquente, dolce e perverso, affascinante e indisponente? Amava i cavalli, a Cagne sur Mers, nella sua scuderia, si affidava ai consigli di Enzo Malvicini, suo amico, effervescente milanese doc, già guidatore vittorioso sulle piste europee e americane così da trasferire a Milano un’autostart, Johnny, era il soprannome di Enzo, provvedeva a ferrare i cavalli, a porre la barra per correggere l’andatura, ad allenarli alle corse.
Alain Delon amava le donne ma era solitario e cupo nei suoi affetti, amava l’ululato del lupo nel bosco, odiava tutto ciò che fosse virtuale, la sua droga era l’amore, dicono, voci mai smentite, anche quello di giovani ragazzi, al tempo in cui Alain era venuto via dalla macelleria di famiglia per andare alla guerra in Indocina. Storie acide, come quelle della sua vicinanza alla feccia della criminalità francese, François Marcantoni su tutti, l’arresto per l’omicidio di Stevan Markovitch la sua guardia del corpo che in una lettera al proprio fratello aveva avvisato: "Se mi ammazzano, i colpevoli sono Delon e Marcantoni", l’amicizia con Jean Marie Le Pen, dunque la sua appartenenza politica ad una Francia detestata, pericolosa, disprezzata dalla gauche caviar. Se ne fotteva, bello, impossibile, destinato ad un epilogo amarissimo, l’ictus, il cancro a ferire il suo corpo eppure lasciando il fascino dello sguardo, quel sorriso metallico, i denti stretti, le labbra appena socchiuse, curvo ormai nella sua dimora di Douchy, abbandonato dalla Francia, dinanzi al teatro cattivo dei suoi figli, Alain-Fabien, Anthony, Anoucka in guerra per l’eredità contro la "badante" giapponese che lo aveva plagiato, lui da sempre attorniato dai cani, cinquanta sepolti nel parco antico di Douchy e Loubo, per ultimo, solo, triste, accucciato su un canapé, fotografato da Anoucka dal finestrino di un’auto, come il segnale di un viaggio che sta per finire.
Aveva detto a Bernard Pivot il suo desiderio a conclusione della vita: "Vorrei che Dio mi accogliesse dicendomi: so quale è il tuo più grande rimpianto, vieni, ti porto da tuo padre e da tua madre così che per la prima volta possiate stare insieme". Non so se accadrà in Paradiso ma la storia è finita a Douchy, 18 di agosto del duemila e ventiquattro. Da qualche parte, in una casa di Milano, una tazzina di caffè ne conserva la memoria.
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