Roma - Ipotesi suggestiva, certo: Gianni Letta presidente del Consiglio. Una soluzione che avrebbe appeal, fascino e la straordinaria capacità di cancellare la parola «ribaltone». L’uomo più vicino a Berlusconi che accompagna Berlusconi all’uscita di scena: un colpo di teatro. Una carta che per alcuni sarebbe un vero e proprio jolly: l’ombra del Cavaliere che si fa luce e prende le redini del Paese in modo diretto, mentre prima lo ha sempre fatto ma da dietro le quinte. Il mediatore per eccellenza, il re dei pacificatori, il principe della negoziazione. Anche il suo nome è finito nel frullatore dei personaggi in grado di guidare la cosiddetta «crisi pilotata». Accanto al suo quelli di Tremonti (che ieri si è chiamato fuori dalle colonne del Corriere della Sera, «ho giurato fedeltà al Cavaliere, per me è un valore morale e politico»), Alfano, Maroni, Pisanu, Draghi, Monti. Forse Letta sarebbe quello meno ribaltonista e più berlusconiano di tutti. Sarebbe istituzionale, alto, coerente. Ma soprattutto il meno legato alla discontinuità con il Cavaliere. Sarebbe il regista che diventa attore; l’allenatore che scende in campo. Quello che parla con tutti: dal Quirinale al presidente della Camera, dal capo dell’opposizione a quello del governo. Insomma, quello che smussa, modera, sintetizza. Il Richelieu di Berlusconi, tuttavia, si presterebbe a raccogliere lo scettro del suo monarca? Ma soprattutto: il comandante ha mai chiesto o proposto al suo uomo di fiducia di prendere la barra del timone? Non è dato sapere con certezza. Tuttavia il suo nome è circolato in più occasioni in ambienti pidiellini e non.
Quello che è certo è che l’ipotesi Letta non è stata vagliata nel famoso summit della mediazione tra Bossi e Fini. Ne sono stati fatti tanti di nomi, ma quello del sottosegretario più fedele al Cavaliere no. Né da parte leghista né da quella finiana. Non per mancanza fiducia nei confronti dell’uomo più stimato dal Cavaliere ma forse per la consapevolezza che uno non avrebbe mai chiesto all’altro di prendere il suo posto; e l’altro non avrebbe mai accettato l’eventuale sollecito.
Non sarà il potente sottosegretario, quindi, a traghettare alcunché. Non sarà Letta a «trattare la resa» del Cavaliere anche perché la «resa» non ci sarà. Nessun piano B. Nella testa del Cavaliere la politica continua ad essere - o meglio dovrebbe continuare ad essere - limpida. Si va alle elezioni e chi vince governa mentre chi perde va all’opposizione e si prepara a governare dopo cinque anni se il governo precedente fallisce. Ma soprattutto si perde e si vince insieme: questo il patto non scritto ma resistente come l’acciaio tra Berlusconi e il suo uomo più fidato. E la partita è un giro di roulette dove si può giocare soltanto rosso o nero. Nessuno spazio per il verde perché lo zero non c’è. Quindi o si va avanti così o voto, tertium non datur. Che poi è la forza di Berlusconi: bando ai giochi di palazzo, alle indicazioni di premier non scelti dagli elettori, agli escamotage partitocratici che decidono a tavolino quando un leader è finito oppure no.
Così, Letta e Berlusconi andranno fino in fondo insieme: il primo a consigliare e indirizzare il secondo; il secondo a valutare e interpellare il primo, senza mai temerne il doppio gioco. La prudenza del primo e l’intuizione del secondo non sono mai stati contrapposti ma uniti e fusi in sedici anni di politica. E anche in questa occasione decideranno insieme le prossime mosse. FCr
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