Era poco più di un ragazzo quando aveva lasciato Pescara per Roma. Tutto ciò che aveva imparato, nell'arte, dal padre Tommaso e prima ancora dal nonno Basilio, ora lo portava stretto con sé come un tesoro, in cerca di fortuna. La guerra era appena finita, per miracolo era scampato ai rastrellamenti nazifascisti, dopo aver lasciato gli uffici della propaganda bellica ed essere rientrato a precipizio nella sua regione, a sostegno del padre, della madre e delle sorelle, unico uomo in famiglia a poterlo fare.
Suo fratello Andrea, maggiore di lui di due anni, il suo riferimento per ogni avventura, il modello da imitare, era ormai clandestino al Nord per combattere da partigiano.
Pescara era stata devastata dai bombardamenti, l'unica fuga per la salvezza era lo sfollamento verso le campagne teatine. E finalmente era arrivata la pace, si apriva un nuovo scenario: addio monti, addio mare. Addio alle prime luci dell'alba, alle striature colorate del cielo sulla Maiella, alle chiese romaniche incastonate nella roccia, dove suo padre conduceva lui e Andrea per avviarli alla pittura e apprenderne i segreti, svelare come riprodurre sulla tela tutto ciò che gli occhi riuscivano a rubare alla natura. Addio a tutto, verso la propria realizzazione: Roma, gli avrebbe dato da vivere.
In capo a un decennio sarebbe diventato uno dei più importanti scultori del Novecento, chiamato a costruire il Monumento di Auschwitz, il memoriale dell'orrore che aveva sconvolto il mondo, la sua laurea di scultore e la tappa più importante della sua vita di uomo e artista della pietra.
Per celebrare il suo Centenario della Nascita si apre a Roma, al Casino dei Principi di Villa Torlonia, una mostra dedicata a Pietro Cascella (1921-2008), centrata sul fiammeggiante periodo giovanile nella Capitale, nell'immediato e difficile dopoguerra, in cui mosse i primi passi da artista autonomo.
Dipinti, bozzetti, disegni, sculture, sabbie, per la maggior parte inediti, raccolti per l'occasione con affetto filiale da Tommaso, anch'egli pittore, e curata dal Comitato Nazionale istituito dal MiBACT: Claudia Terenzi, Lorenzo Fiorucci e chi scrve.
Occasione senza precedenti per conoscere da vicino una personalità artistica di altissimo spessore -e non adeguata notorietà- e ripercorrere, da un'ottica privilegiata, la stagione in cui l'Italia rialzava la schiena dalle macerie della guerra e si inventava dal nulla una prodigiosa resurrezione. Il destino del nostro Paese e di Pietro Cascella procede di pari passo e, in certi momenti, sembra di raccontare una favola.
A Roma Pietro e Andrea trovano accoglienza dai mattonari, che a Valle Inferno, poco fuori dal Vaticano, cuocevano laterizi per la fabbrica di San Pietro e per i tanti cantieri che sorgevano nella fervorosa ricostruzione. Tra gli operai affaccendati i due artisti cominciano a sfornare senza posa ceramiche di uso comune per sbarcare il lunario, e insieme a modellare la creta creando opere ciclopiche, bizzarre, allegre e colorate, feticci folcloristici della loro terra di origine e mazzamurelli. Valle Inferno, in un'esplosione di gioia e di inarrestabile fermento creativo, rappresenterà un capitolo centrale del passaggio, graduale ma inarrestabile, di Pietro Cascella verso la scultura.
L'Osteria dei Fratelli Menghi, ritrovo dei pittori squattrinati, l'incontro con il geniale e rivoluzionario Sebastian Matta, che aveva portato a Roma lo spirito del tempo appreso in ogni nazione del mondo, la prima mostra all'Obelisco, il felice ritorno all'arte e alla vita.
Insieme alla prima moglie mosaicista, Annamaria Cesarini Sforza, Pietro Cascella viene presto introdotto nell'ambiente degli architetti, riceve a Roma incarichi per gli stucchi dei soffitti, produce ceramiche decorative per i palazzi capitolini; arricchisce i cinema, della catena di Giovanni Amati, di mosaici policromi che incantavano la folla.
Gli architetti se lo contendono, l'artista inizia a «pensare in grande e a capire lo spazio», come egli stesso aveva dichiarato, si misura per la prima volta con rappresentazioni murali di notevoli dimensioni e di ampio respiro. Ludovico Quaroni lo chiama per la realizzazione degli arredi liturgici delle chiese in costruzione nel Sud Italia. Nello stesso periodo ha inizio la produzione dei poco noti «quadri scultura», sperimentazioni materiche, tavole di sabbia impastate a colori a tempera, terre e polvere di mattone. Primo annuncio concreto di evasione da una bidimensionalità ormai venuta a termine.
La mostra racconta tutto ciò attraverso un percorso di più di cento opere. Il pubblico potrà entrare in contatto per la prima volta con la metamorfosi del futuro scultore verso le grandi costruzioni in pietra. Si potranno ammirare i dipinti, le fantasiose ceramiche di Valle Inferno, i disegni di un giovanissimo Pietro, il quale per tutta la vita, assistito da un infallibile talento, continuerà a tratteggiare idee e figure su ogni foglio di carta, taccuino, agenda, avesse a portata di mano. Schizzi preparatori, idee compositive, progetti, prove, sogni, profusi senza risparmio. Saranno visibili i bozzetti in gesso e in bronzo, in cui scorgere il primo approccio geometrico al monumento in via di esecuzione. Si respirerà l'atmosfera fibrillante di un artista inquieto e generoso, sempre sospinto verso mete e traguardi da raggiungere, sempre fedele al proprio piglio caparbio e insieme sacerdotale. Ci saranno le sue interviste, le sue dichiarazioni sul proprio lavoro, sulla propria poetica, e sarà possibile ascoltare dal vivo il segreto stesso della sua attività.
«Sono arrivato tardi alla scultura, ma non ho rimpianti. Tutto ciò che ho fatto, per sopravvivere o per passione, mi è stato utile. Lo ritrovo dentro di me, come accumulo di moti del cuore e del cervello».
Una mostra che non è soltanto l'omaggio
indispensabile e dovuto al grande artista pescarese, ma che rappresenta per lo spettatore anche una riflessione profonda sul senso più antico del fare, il più nobile, esaltare la dura materia a esprimere l'inesprimibile.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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