La poesia che faceva rima con ideologia

Edoardo Sanguineti fu senz’altro il più dotato criticamente e ideologicamente tra i poeti che furono chiamati «Novissimi». Fu un innovatore polemico contro le istituzioni letterarie del suo tempo, e condusse la sua battaglia con grande fragore, amplificato dal Gruppo 63, che rimescolò le carte e produsse non pochi sconvolgimenti. In poesia, venne combattuto il tardo ermetismo, senza peraltro intaccare la vena prodigiosa di Ungaretti prima, e poi di Luzi. Nel romanzo, i bersagli furono Cassola e Bassani: vennero distrutti con l’arma del dileggio, e fu una delle pagine meno giuste della cultura letteraria di quegli anni.
Ma il massimo contendente di Sanguineti fu Pasolini. I due dibattevano sulle sorti della poesia e del mondo come due capi di Stato in conflitto. Alla disperata vitalità pasoliniana, Sanguineti opponeva un suo rigore marxista che utilizzava le avanguardie e grandi come Pound ma per fini parodici, per demistificare ogni pretesa metafisica della poesia. Sanguineti passò presto dalla forma onirica di Laborintus a testi poetici costruiti con una voluta, insistita atonalità che rasenta sempre la prosa, con una ironia diaristica che fa ricordare Gozzano, autore che fu oggetto del suo interesse critico. Il poeta ormai affermato parla quasi unicamente dei suoi viaggi, convegni, conferenze, incontri, occasioni, sogni erotici, con una coerenza monomaniaca, raggiungendo talvolta effetti di grande eleganza formale, come in certe chiuse di Wirrwarr.
Uomo di cultura a tutto campo, Sanguineti non si negò al romanzo, o meglio all’antiromanzo, come usava dire allora, tra i titoli ricordo Capriccio italiano e Il gioco dell’oca. In seguito, non fu più tentato dalla narrativa, come se una poetica combinatoria, dissacratoria e tutta gioco intellettuale si fosse esaurita da sola crollando su se stessa. Fu professore e critico, traduttore di classici, autore di libretti per Luciano Berio, una figura di umanista completo che paradossalmente detestava la cultura umanistica, almeno in quanto la considerava frutto del privilegio borghese. In realtà, Sanguineti era un borghese in rivolta che si era messo sopra l’abito di un politico togliattiano. Alla fine il dogmatismo ideologico ha prevalso e lo ha fatto scivolare verso posizioni insostenibili e inattuali.
Ma Sanguineti la coerenza non l’ha mai perduta. Ha sempre fortemente voluto essere un marxista leninista, un materialista, nemico di ogni spiritualismo. Una volta se ne uscì dicendo che la causa della crisi del pianeta era il ritorno dell’interesse per gli angeli. Si proclamò sino all’ultimo foscoliano, ma senza la generosa forza delle illusioni che portavano Foscolo verso la bellezza e il mito. Eppure, invecchiando, scrisse ancora delle belle poesie. Una si intitola Testamento ed è piena di significati al di là dell’andamento ludico delle forme. L’abilità metrica si coniuga a una specie di malinconia nuova, che dà i suoi migliori risultati.
Celebrato da quando era giovane e toccato via via dai riconoscimenti più importanti, Sanguineti se ne va a ottant’anni, e lascia un mondo poetico e letterario che certamente non aveva previsto né voluto. L’esperienza della Neoavanguardia è finita da tempo, e del Gruppo ’63 hanno oggi rilievo autori che hanno saputo giocare di sponda o rinnovarsi, come Arbasino e Eco. La visione politica ispirata al marxismo leninismo è naufragata. Il materialismo mostra la sua complicità con il dissesto della natura e del pianeta. Sanguineti resterà per alcuni dei suoi versi, questo è sicuro. Per l’energia con cui irruppe nella poesia italiana, cancellando vecchi schemi retorici, musicalmente consunti. Ricordo come lo lessi negli anni Sessanta, tra le aule della Statale a Milano. Come uno che riportava la poesia al centro del dibattito anche politico, che provocava, che innovava.

Poi cominciai ad andare per la mia strada e ad avversarlo, è vero, ma ora gli rendo l’onore delle armi.
È triste quando muore un poeta. Anche un poeta che diceva di scrivere in odio alla poesia, e per questo te la faceva amare ancora di più.

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