Il poeta che mette una nota in ogni verso

Mogol è un poeta e non mi importa che cosa ne pensino i poeti libreschi, da sempre invidiosi del successo degli autori di canzoni. Non è nemmeno tanto importante che cosa ne pensi il diretto interessato, Giulio Rapetti in arte Mogol, un signore piuttosto tignoso che sulle definizioni ha sempre messo i puntini sulle i. Ieri al Parma Poesia Festival si è inalberato quando, davanti a una sala affollatissima nonostante il caldo, ho avuto l’ardire di chiamarlo paroliere: «E se io la chiamassi scribacchino?».
Il qui presente scribacchino è convinto che Palazzeschi non avrebbe fatto tante storie, gli sarebbe piaciuta moltissimo la rima con «giocoliere»: se il poeta fiorentino (teorico del funambolismo linguistico e della poesia come divertimento e ritmo) non fosse nato nell’Ottocento, sarebbe stato lui il coautore di Lucio Battisti, altroché. Come sappiamo è andata diversamente e non dobbiamo lamentarci troppo visto che il ripiego, chiamiamolo così, ha prodotto La canzone del sole e Il mio canto libero. Bene ha fatto il Parma Poesia Festival a coinvolgerlo nell’ambito di una giornata in cui l’intruso non era certo Mogol bensì l’ateista professionista Corrado Augias, maestro della sconsacrazione e quindi dell’impoesia, apparso poche ore dopo sul palcoscenico del Teatro Due. Tra Franco Loi e i poeti turchi Mogol giganteggiava, se è vero come ha scritto Josif Brodskij (sul cui statuto di poeta non mi sembra ci siano dubbi) che la poesia «è una forma di educazione sentimentale». E chi è stato il più importante educatore sentimentale degli italiani nati negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta? Non certo Giovanni Raboni.
Ci sono ragazzi cresciuti nei palazzoni del boom economico che non avrebbero mai avuto nel cuore un campo di grano, la «poesia di un amore profano», se non avessero ascoltato Pensieri e parole. Io, nei remotissimi pomeriggi bolognesi di via Pellizza da Volpedo, imparai molto da I giardini di marzo, per esempio che precondizione dell’amore è «il coraggio di vivere». Con Antonella (si chiamava Antonella) consumammo la cassetta (c’erano le cassette) a forza di ascoltarla: a quel tempo i carretti dei gelati si erano già estinti ma all’uscita di scuola i ragazzi vendevano ancora i libri usati e io restavo davvero «a guardarli / cercando il coraggio di imitarli».
Fa male Patrizia Valduga, poetessa vera, a insistere nel voler sminuire l’importanza dei testi delle canzoni, a definirli filastrocche, come se poi le filastrocche fossero serie B e non la forma primordiale della lingua materna, la voce dell’anima semplicetta che sa nulla. E non perché lo dico io, perché lo dimostra il massimo poeta italiano vivente, Andrea Zanzotto, con la sua vertiginosa Elegia in petèl nei cui versi sono incastonate le parole dialettali dei bambini veneti, ovviamente in rima. Già, la rima.
Ho sempre sospettato che l’ostilità dei poeti moderni contro i cantautori non sia dovuta solo ai guadagni (molto diversi, perfino in questi tempi di crisi discografica) ma anche alla loro incapacità di governare il verso. Non mi riferisco a Valduga o Zanzotto o Conte, che la metrica la conoscono benissimo, ma a quelle migliaia (o milioni?) di poetastri che danno lavoro alle tipografie e alle giurie dei premi letterari delle stazioni termali. Tutti quanti fautori del cosiddetto verso libero, siccome è più facile andare a capo quando se ne ha voglia piuttosto che quando lo impone l’endecasillabo.
Scrivere belle canzoni, specie se d’amore, è complicatissimo, è un’arte sottile che prima dell’ispirazione richiede molta applicazione: io ci ho provato, per il gruppo che faceva da spalla a Ligabue, e dei risultati ancora mi vergogno.
Mogol a Parma ha regalato a chi volesse cimentarsi in questo lavoro una dritta preziosa: «Le parole vanno scritte dopo la musica, così l’autore ascoltandola può trarne spunto». Poi si è sminuito: «Non sono un poeta, sono un uomo qualunque, leggevo Edgar Lee Masters ma De André era molto più colto di me». Però era contento come una pasqua, quando una signora del pubblico gli ha ricordato che le sue canzoni sono ormai presenti nelle antologie scolastiche. L’obiezione più ragionevole contro i testi cantautorali è che non reggono senza musica. Sì, spesso è vero, ma anche i versi di Maurizio Cucchi non reggono senza musica e, quel che è peggio, non reggerebbero nemmeno con la musica. Comunque i testi di Panella, collaboratore del Battisti ultimo, funzionano anche se letti in silenzio, avvicinandosi molto ai lavori di sperimentatori laureati come Palazzeschi, appunto, o Sanguineti. «Dolcezza e liturgia/orgetta e leccornia» sono parole che mi illuminano da anni, e la musica per cui sono state scritte nemmeno la ricordo più.

Mi affretto a chiudere la parentesi panelliana altrimenti Mogol si innervosisce e poi anche lui ha composto rime che restano nella mente senza bisogno di note: «Ancora tu / ma non dovevamo vederci più». supera i confini della canzone, è un brivido estivo, il soggetto di un film, la vita vera.

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