Se allarme populismo diventa solo un alibi

Se allarme populismo diventa solo un alibi

H o l'impressione che il dibattito sulle élite, che da tempo occupa i quotidiani, sia viziato da alcuni grossi equivoci. Va osservato, intanto, un fatto abbastanza curioso. Oggi tutta la cultura di sinistra sembra riconoscersi nelle tesi di Joseph A. Schumpeter, per il quale «il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare: il popolo sceglie chi decide, non decide tramite i suoi rappresentanti». Come mai questa «riscoperta»? I difensori della democrazia progressiva non avevano accusato Schumpeter di essere l'ideologo di una borghesia, diffidente del «potere del popolo» e decisa a svuotarlo rimettendo il governo nelle mani di «responsabili» élite? La spiegazione, a mio avviso, è semplice: nel momento in cui gli attori politici che competono con successo per il potere sono espressione della political culture dominante, l'elitismo può diventare l'alibi di una prassi giacobina che rimodella, attraverso le leggi, i costumi di una società civile retrograda pur se elettoralmente maggioritaria. Non vorrei essere frainteso, anch'io diffido della rivolta contro le élite ma credo che i frequenti allarmismi portino a rimuovere alcuni dati cruciali. Innanzitutto, quello relativo ai confini dell'arena politica. È il fatto che questa sia aperta a ogni decisione, sicché il popolo può pronunciarsi su tutto, a far paura: ma non è questo un portato della concezione forte della democrazia? A scuola non ci viene insegnato che «l'interesse generale» deve prevalere sugli egoismi individuali e la nostra costituzione non subordina il riconoscimento della proprietà privata alla sua funzione sociale? In America, scriveva Tocqueville, al di sopra del conflitto tra maggioranza e minoranza, «nel campo morale, si trovano l'umanità, la giustizia e la ragione; nel campo politico, i diritti acquisiti». Tali barriere saltano nel populismo ma non saltavano pure nelle critiche mosse alla «democrazia formale»?

Non meno rilevante è il secondo equivoco. Come si fa a votare, si dice, per chi presenta programmi bislacchi iscritti nella piattaforma Rousseau? Con questo rilievo si ignora che i cittadini, quando si recano alle urne sono assimilabili più a giudici che si pronunciano sull'operato dei governi in carica, che a truppe armate di scheda elettorale che scendono in campo a sostegno di questo o quel partito. In Italia, gli antielitisti non vogliono più vedere ai posti di comando la classe politica di ieri, i leader sindacali, i giuristi di regime, gli economisti del Principe che hanno prodotto la voragine del debito pubblico e difeso malamente gli interessi del Paese all'estero.

Sbaglieranno pure, non discuto, ma se una classe dirigente non riscuote più (a ragione o a torto) il consenso delle masse non dovrebbe togliersi di mezzo invece di voler ricostituire l'esercito sconfitto in nome dell'antipopulismo?

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