"Italia e Libia come un ponte tra Europa e Africa, ma serve un sistema Paese per spingere le nostre Pmi"

Il presidente della Camera di commercio italo-libica Nicola Colicchi: "Dobbiamo imparare che l'economia e il commercio sono il primo avamposto per l'azione politica"

"Italia e Libia come un ponte tra Europa e Africa, ma serve un sistema Paese per spingere le nostre Pmi"

Presidente Colicchi, il figlio di Haftar è stato due giorni a Roma, lo ha invitato lei?

Da tempo la Camera di Commercio Italo-Libica coltiva le relazioni con la Libia orientale come con quella occidentale. Abbiamo colto l’occasione di una sua visita nel nostro Paese.

La Libia era un po' uscita dai riflettori. È però importante tornare a parlare di questo Paese. Com'è la situazione lì?

Da un punto di vista della stabilità politica è ancora in corso, purtroppo, una generica incertezza. Da un punto di vista della sicurezza fisica, invece, le dico questo: io giro a Tripoli con assoluta serenità, magari anche più di quanto non potrei fare quando mi trovo a Milano. L'instabilità, in sostanza, riguarda il contesto politico, che permane complesso e richiede comunque di muoversi con attenzione e con contatti fidati, ma non la “sicurezza fisica” immediata, come invece in una zona di guerra. Aggiungo che la Farnesina, finalmente, ha ammorbidito il famoso sconsiglio per cui si diceva, in passato, di non andare in Libia. Certo, per turismo ancora vige il “warning”, ma per business non è più apertamente sconsigliato visitare il Paese, ovviamente fatte salve le misure di mitigazione del rischio e in generale il buon senso.

La Libia è sempre stata fondamentale per l'Italia fino al 2011, poi l'abbiamo persa. Adesso con il piano Mattei questa nazione è tornata centrale nella nostra agenda. Quali sono gli investimenti che ora sarebbero più adatti per il contesto libico?

Secondo noi la Libia, trattandosi di un Paese con grandi risorse, non richiede da parte italiana grandi investimenti di carattere finanziario. Richiede, semmai, grandissimi investimenti per facilitare l'apertura dei mercati nonché l'ingresso delle nostre PMI in loco. Il vero tesoro del nostro Paese, quello cioè che possiamo esportare all'estero, coincide infatti con la genialità dei nostri piccoli e medi imprenditori, dai quali sostanzialmente dipende l'economia italiana. E la Libia è un territorio eccezionale per la loro penetrazione. Il settore privato libico, relativamente giovane ed estremamente dinamico, merita di trovare controparti pronte a farlo crescere con capacità, tecnologie, investimenti in capitale umano, con una logica win-win.

Non è vero che abbiamo perso la Libia, siamo primi partner economici con oltre 9 miliardi di euro di interscambio (il doppio che con la Tunisia o con il Brasile o con l’India), primi importatori e terzi esportatori (dopo Turchia e Cina). Vero è che molto di questo commercio riguarda idrocarburi e prodotti raffinati, ma macchinari ed agroalimentare stanno proporzionalmente aumentando come componenti del nostro export. L’Italia è la più rappresentata tra i Paesi europei ed occidentali alle numerose manifestazioni fieristiche sia a Tripoli che a Bengasi, e nessun altro Paese ad oggi ha realizzato un Business Forum con oltre 100 aziende italiane in presenza come noi.

Per quale motivo?

La Libia è un Paese ricco, dove c'è molta ricchezza circolante. C'è un grande desiderio dei libici di fare impresa. Le porto un dato: ci sono 250mila imprenditori su 6-7 milioni di abitanti, e i primi sono alla ricerca di partner, tecnologie e competenze. Ricordiamoci che fino al 2011 in Libia esistevano pochissimi veri imprenditori, perché tutto era dominato dal settore pubblico. Oggi le cose cominciano a cambiare. I libici adorano poi il brand italiano. Per dire che un prodotto è di alta qualità dicono che è “italiano”, e non lo dicono in arabo ma proprio usando il termine mutuato dalla nostra lingua. È un Paese, inoltre, che si trova ad un'ora e mezza di volo dall'Italia, dove tutti alla fine parlano inglese (gli anziani anche italiano) e visitato dai nostri imprenditori. Ci sono, insomma, tutte le condizioni ideali per un nostro “sbarco”, non tanto con le baionette, ma con la nostra capacità di intrattenere rapporti. Alla fine, il destino italiano e libico – geografico, geopolitico, geostrategico - è quello di stare assieme. Il 40% del traffico mondiale di merci passa a cento miglia da ognuna delle nostre coste, e nessuno di noi riesce ad intercettarlo. In Libia, tra l'altro, c'è un grandissimo commercio con il centro Africa, e dovremmo inserirci in questo meccanismo. Dovremmo far valere un concetto del genere: “Italia e Libia come ponte tra Europa e Africa”. Ecco: a noi manca il sistema Paese. Noi abbiamo apprezzato tantissimo la missione organizzata con (e non per) la presidente del Consiglio il 29 ottobre scorso perché – a mia memoria – è stata la prima volta che ho visto un Presidente del Consiglio non andare in un Paese straniero portandosi dietro le imprese come comparse. Al contrario, in quell'occasione ho visto un presidente che è venuto in Libia a sostenere, a spingere le piccole e medie imprese. È una cosa che ha colpito tutti. È un buon inizio.

Però?

Non riusciamo ad avere un sistema Paese, per cui dovremmo spingere tutti insieme come fanno gli altri Stati. Ambasciata, Ice e Consolato a Tripoli (e Bengasi) fanno sforzi encomiabili, ma non basta. L'Italia si autovincola con tante piccole problematiche burocratiche, in cui non si capisce chi è competente per fare cosa. Noi vorremmo invece una vera cabina di regia dove tutti i protagonisti che possono provare a mettere insieme ciò che serve per facilitare la libertà e la sicurezza delle nostre imprese in Libia, possano creare questi presupposti. Abbiamo firmato un protocollo - che se ci lavoriamo bene potrebbe essere determinante - con il ministero del Governo Locale, che in Libia è il ministero che si occupa anche delle piccole e medie imprese, in cui ci proponiamo di facilitare problemi di dogana, bancari, burocratici.

I libici sono corretti. Non ho mai visto un'impresa libica che non ha pagato una italiana. Il problema è che spesso ci sono difficoltà perché la banca è fuori dal sistema internazionale, bisogna triangolare con la Tunisia o con la Turchia, le lettere di credito sono complicate perché ci sono problemi... Se riuscissimo a sciogliere questi nodi potremmo dare sfogo alle potenzialità del sistema delle nostre PMI, inserendole in un contesto ricco e ben accogliente.

Può spiegare meglio perché Italia e Libia sono unite, come lei usa dire, da un unico destino?

C'è una cosa che dovremmo imparare dai francesi e dagli anglosassoni: l'economia e il commercio sono il primo passaggio, sono l'avamposto, l'avanguardia, per l'azione politica. Ricordiamoci poi che abbiamo avuto un unico imperatore africano a Roma, che era Settimio Severo, un libico. Già allora era evidente che il nostro partner naturale verso l'Africa, e per l'ingresso nei Paesi africani, fosse la Libia. È molto sentito anche dai libici. Hanno un sentimento della tradizione culturale che li lega all'Italia, che è fortissimo (e qui in Italia raramente ce ne rendiamo conto). Torno a ripetere: ci sono tutti gli elementi per fare questa operazione. I francesi sono molto più dinamici e persino “aggressivi” rispetto all'Italia. Loro che non sono affatto amati in Libia e dai libici, stanno pianificando in loco missioni ben organizzate. Noi dovremmo riuscire ad avere un sistema e qualcuno che diriga questo sistema che ci faccia muovere in maniera compatta. Se una volta tanto ci riuscissimo, potremmo crescere insieme alla Libia.

Con una differenza rispetto agli altri: noi quando andiamo nei posti non siamo gli imprenditori del mordi e fuggi, soprattutto le nostre piccole e medie imprese. Queste ultime vanno nei posti, portano conoscenza, cultura, competenza e umanità. E questo la Libia di oggi giustamente richiede e merita.

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