L'era imprevedibile dei giganti d'argilla

Pechino non può fare a meno degli Usa come mercato di sbocco per le sue esportazioni dal momento che l'America vale 420 miliardi di dollari l'anno

L'era imprevedibile dei giganti d'argilla
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La disputa dei dazi ha messo nudo tutte le debolezze delle superpotenze planetarie, o presunte tali. L'America di Donald Trump, fa sparate spavalte su presunte trattative sui dazi, prontamente smentite da Pechine. Annuncia tariffe e poi le sospende, le rivede. La stessa Cina risponde, rispedisce al mittente aerei di cui ha più che bisogno. Toni sopra le righe e volontà da penultimatum che rivelano delle vulnerabilità, emerse con forza alla prova dei mercati con gli scossoni di Wall Street e il nervosismo sui rendimenti dei titoli di Stato americani.

La Cina, che possiede il circa il 10% del mostruoso debito pubblico americano che supera i 34mila miliardi di dollari, se lo vendesse massicciamente potrebbe mettere in seria difficoltà la tenuta dei conti di Washington.

Allo stesso modo, però, Pechino non può fare a meno degli Usa come mercato di sbocco per le sue esportazioni dal momento che l'America vale 420 miliardi di dollari l'anno. Una quota non elevatissima sul totale dell'export cinese, ma con un impatto significativo sull'occupazione: si stima, infatti, che tra i 10 e i 20 milioni di lavoratori siano impiegati in settori collegati alle vendite negli Stati Uniti. Può un Paese vocato all'export come la Cina rinunciare a un approdo cruciale come la prima economia al mondo? Evidentemente no, perché il mercato interno cinese non cresce abbastanza con un Paese che ha ancora grosse sacche di povertà nelle aree rurali. Inoltre, l'ex Celeste Impero ha a sua volta dei seri problemi con il suo debito pubblico, con molte amministrazioni locali che scontano il crollo del mercato immobiliare. Senza un tasso di crescita del Pil sufficientemente elevato la sostenibilità di un'economia fortemente basata sui sussidi statali è a rischio. Goldman Sachs, stima che la crescita del Pil cinese potrebbe scendere quest'anno al 4% (l'obiettivo di crescita del governo è al 5%), per poi calare ancora al 3,5% nel 2026. Il tutto, in un Paese che a breve assaporerà gli effetti di una popolazione che sta invecchiando e ha già incominciato a diminuire, a causa di un tasso di fertilità che è paragonabile a quello dell'Italia (ovvero molto basso).

In questo quadro generale c'è la posizione dell'Europa, che ha uno scarso peso sia a livello geopolitico che economico se si parla di singoli Paesi. Ma il mercato unico, nel suo complesso, ha una dimensione dell'economia pressoché pari a quella di Pechino ed è uno sbocco ricco e irrinunciabile quanto per la Cina che per gli Stati Uniti, con quest'ultimi che vendono all'Europa principalmente armi e tecnologia. Bruxelles, quindi, è debole militarmente, non ha satelliti e non ha una piattaforma cloud proprietaria, né un suo sistema di pagamenti (in attesa che arrivi l'euro digitale). Ma ha dalla sua il fatto di essere il più grande riferimento oltre confine per le big tech americane, dal momento che la Cina è messa molto bene sul fronte tecnologico ed è autonoma per rivaleggiare con gli Usa su (quasi) tutto. La stessa vocazione esportatrice di Pechino non può fare a meno dell'Unione europea (e viceversa). Nessuno dei tre grandi agglomerati economici del mondo, insomma, può fare a meno a cuor leggero dell'altro, a meno che non si mettano in conto costi enormi.

Tutti, quindi, hanno punti di forza ma soprattutto debolezze nel grande gioco del commercio globale.

La speranza, quindi, è che la paura di farsi male abbia alla fine il sopravvento sull'istinto primordiale di prevalere, arrivando quindi a una vera trattativa che possa portare infine il mondo a una nuova prosperità. Anziché a un requiem che non farebbe la gioia di nessuno.

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