Come si elegge il presidente degli Stati Uniti

Tra grandi elettori, Stati in bilico e voto anticipato gli americani si preparano a un nuovo appuntamento con la storia

Come si elegge il presidente degli Stati Uniti

“Ricorda, ricorda il 5 novembre”, recita la celebre filastrocca che nel Regno Unito si canticchia per ricordare la Congiura delle polveri, il complotto di Guy Fawkes sventato il 5 novembre del 1605 che mirava a distruggere il Parlamento e ad assassinare l’allora re Giacomo per instaurare a Londra una nuova monarchia. E al di là dell’Atlantico c'è un altro 5 novembre, dalla portata non meno storica, che incombe all’orizzonte per milioni di elettori americani chiamati a scegliere il nuovo inquilino della Casa Bianca e a stabilire se confermare o invertire la rotta sin qui seguita, in patria e all'estero, dalla superpotenza americana. Una data che dall'Alabama al Wyoming verrà ricordata a lungo a prescindere dal risultato che verrà restituito dalle urne.

Ma quali sono le regole che permettono di selezionare il presidente degli Stati Uniti? Per rispondere a questa domanda occorre sin da subito fare una premessa. Il ritmo vorticoso degli eventi che hanno caratterizzato l’attuale campagna elettorale a stelle e strisce e più in generale la straordinarietà della politica dell’ultimo decennio negli States porterebbero a pensare che quello che ci aspetta possa essere un election day diverso da tutti gli altri.

C’è infatti chi già pronostica l’imminente scoppio di una seconda guerra civile e chi sostiene con toni altrettanto cupi che questa sarà l’ultima elezione libera americana. Occorre però ricordare che ancora una volta, salvo sconvolgimenti epocali, accederà al 1600 di Pennsylvania Avenue chi tra la candidata democratica Kamala Harris e il suo sfidante repubblicano Donald Trump conquisterà la maggioranza del collegio elettorale. Andiamo dunque con ordine e vediamo più nel dettaglio come avviene in America la scelta del capo del potere esecutivo.

Grandi elettori e collegio elettorale

Ogni quattro anni il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre, data individuata dal Congresso Usa nel 1845 per permettere la simultaneità del voto in tutto il Paese e un agevole raggiungimento dei seggi a chi partiva dalle campagne in calesse per andare a votare, i cittadini americani scelgono a chi affidare i codici di lancio nucleari e chi il giorno del ringraziamento risparmierà la vita ad un fortunato tacchino.

Gli statunitensi, circa 160 milioni quelli che hanno preso parte alla tornata elettorale del 2020, non eleggono però direttamente il capo della Casa Bianca bensì i “grandi elettori”, per lo più funzionari di partito collegati ai candidati in corsa per le elezioni presidenziali, che a loro volta si riuniscono nel cosiddetto collegio elettorale per eleggere presidente e vicepresidente.

Ad ogni Stato è associato un numero preciso di grandi elettori, in tutto 538, pari al numero di rappresentanti che ogni Stato manda a Capitol Hill. Essi sono selezionati in 48 dei 50 Stati americani su base maggioritaria. Fanno eccezione il Maine e il Nebraska dove due grandi elettori vengono assegnati secondo il principio maggioritario mentre un ulteriore grande elettore viene attribuito in ognuno dei collegi congressuali in cui è diviso lo Stato (due in Maine e tre in Nebraska). Tre sono infine i rappresentanti assegnati al Distretto di Columbia.

È insomma il collegio elettorale a decretare l’effettivo vincitore della competizione presidenziale e per qualsiasi aspirante Potus diventa quindi fondamentale raggiungere il numero magico di 270 grandi elettori, la maggioranza cioè di tale collegio. In base all’ultimo censimento uno Stato popoloso come il Texas eleggerà quest’anno 40 grandi elettori, erano 38 quattro anni fa. La Pennsylvania vedrà invece ridursi il numero di grandi elettori da 20 a 19. Tali funzionari di partito si riuniscono poi di consueto a dicembre nei rispettivi Stati per nominare formalmente un candidato alla presidenza e uno alla vicepresidenza e comunicare il risultato del voto al Congresso. A livello teorico i grandi elettori possono votare liberamente ma sono state introdotte regole che puniscono chi non vota come previsto.

Se tutto va bene e i due contendenti non finiscono con 269 voti pari – in quel caso a decidere la disputa è il Congresso - il responso dei grandi elettori viene infine convalidato dal vicepresidente in carica. L’insediamento del nuovo presidente ha luogo il 20 gennaio dell’anno successivo a quello del voto, posticipato al 21 se capita di domenica. Il 6 gennaio del 2021 la pacifica fase di transizione da un'amministrazione all'altra è stata interrotta da una folla di sostenitori dell’ex presidente Trump che ha preso d'assalto il Campidoglio a Washington per cercare di impedire la ratifica della vittoria di Joe Biden. Uno scenario da incubo che alcuni temono possa ripresentarsi in caso di sconfitta dell’ex star di The Apprentice.

L’importanza di essere uno swing state

Come abbiamo visto non conta chi ottiene più voti in tutto il Paese ma chi la spunta sul fronte dei grandi elettori anche se solitamente, come nel 2020, il vincitore del collegio elettorale e del voto popolare vanno a coincidere. Per cinque volte nella storia delle elezioni Usa, di cui due volte in tempi recenti (nel 2000 e nel 2016), il vincitore del collegio elettorale è però entrato alla Casa Bianca ottenendo meno voti popolari rispetto al candidato sconfitto.

Per cercare di capire chi possa vincere il 5 novembre non è dunque alla California o al Texas che bisogna guardare bensì agli swing state nei quali poche decine di migliaia di elettori possono fare la differenza. Lo sa bene Hillary Clinton che otto anni fa ottenne circa tre milioni di voti in più rispetto al suo sfidante ma solo 227 grandi elettori contro i 304 vinti da Trump. Fatali furono per l’ex segretario di Stato le sconfitte in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. Stati in bilico che assieme ad Arizona, Georgia, North Carolina e Nevada decideranno l’esito della battaglia per le presidenziali del 2024.

Con tutta probabilità sarà però in particolare nello swing state della Pennsylvania che Harris e Trump si giocheranno il tutto per tutto. I sondaggi nel Keystone State al momento indicano un testa a testa tra i due contendenti. Un soffio di vento tra Pittsburgh e Philadelphia può spostare un’intera elezione e trascinare il Paese verso una guerra commerciale con la Cina oppure verso la riconferma di un’America internazionalista.

C’è comunque da precisare che il club degli Stati in bilico è mutevole. Un tempo ne facevano parte l’Ohio e la Florida, entrambi ormai considerati territorio del partito dell’elefante. I democratici, che possono già contare sulla popolosa California, sperano di portare un giorno il Texas nel gruppo dei battleground state. Qui siamo però di fronte a previsioni tutte da verificare. Resta però il fatto che la folla più numerosa raccolta da Harris nel suo tour elettorale è stata registrata proprio a Houston, una delle principali città del Lone Star State.

Il voto anticipato

Una certa enfasi sull’election day potrebbe essere da rivedere. Infatti, in 47 Stati le autorità locali in varie modalità permettono agli elettori di votare ben prima del 5 novembre. Secondo i dati dell’Election Hub dell’Università della Florida sono oltre 36 milioni gli americani che via posta o di persona hanno già espresso la loro preferenza. Si tratta in gran parte di donne e di anziani sopra i 65 anni. La modalità preferita è quella del voto per corrispondenza. In alcuni degli Stati in bilico come la Georgia e il North Carolina sarebbe già stato battuto il record di voti anticipati registrato nel 2020.

Quattro anni fa, durante la pandemia di Covid-19, il voto anticipato ha favorito i democratici. L’allora presidente Trump accusava il partito dell’asinello di voler usare questo strumento per commettere frodi elettorali. Un'accusa alla base poi della sua mancata accettazione della sconfitta alle urne. Quest’anno invece il tycoon e i suoi sostenitori sembrano aver abbandonato ogni riserva nei confronti del voto anticipato. A riprova di ciò lo stesso The Donald ha dichiarato in un’intervista di voler votare prima del 5 novembre.

Che notte elettorale ci aspetta

Per il pubblico italiano potrebbe non bastare una notte in bianco per sapere chi avrà la meglio tra Harris e Trump. La maggiorparte dei seggi chiude alle 19:00 o alle 20:00, ora locale dei singoli Stati, ma bisogna comunque tenere conto dei differenti fusi orari. Nel 2020 in una prima fase si è assistito ad un “miraggio rosso” con il miliardario in apparente vantaggio sui dem. Nel giro di poche ore, diventate poi giorni, Biden ha però sorpassato il tycoon attirandosi l’ira dell’ex presidente per presunti e mai dimostrati brogli.

Tutto ciò in realtà è dipeso in gran parte dalle regole previste da ogni Stato per il conteggio dei voti anticipati che quattro anni fa hanno permesso di stabilire un vincitore nel North Carolina solo una decina di giorni dopo le elezioni. Alla fine le emittenti televisive negli States hanno decretato ufficialmente Biden come il nuovo presidente solo dopo l'arrivo dei dati definitivi della Pennsylvania e cioè a quattro giorni dalla chiusura dei seggi.

Lontani sono insomma i tempi in cui nel Vecchio Continente ci si poteva risvegliare all’indomani delle elezioni e scoprire già a colazione il nome del vincitore della corsa alla Casa Bianca e anche quest'anno le televisioni americane potrebbero mantenere a lungo la scritta "too close to call" durante le loro maratone elettorali. Basti pensare che in Nevada le preferenze espresse via posta sulla cui busta compare la data del 5 novembre potranno essere conteggiate sino ad un massimo di quattro giorni dopo l’election day. L'annuncio del vincitore, in qualsiasi momento arriverà, potrebbe poi non mettere davvero la parola fine alla competizione presidenziale.

Le minacce velate che giungono sempre più spesso dal campo repubblicano lasciano intendere che il Gop darà battaglia se a prevalere sarà Harris. A quel punto si entrerebbe in un territorio inesplorato e potrebbe aprirsi un capitolo della storia degli Stati Uniti che nessuno spera davvero di raccontare.

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