Tank, armi e munizioni: così l'industria Ue si prepara per la guerra

I leader europei puntano ad incrementare le capacità di produzione per la difesa continentale mentre Trump evoca il disimpegno dal Vecchio Continente

Tank, armi e munizioni: così l'industria Ue si prepara per la guerra
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L’Europa (e la sua sicurezza) agli europei. Si potrebbe riassumere così il messaggio trasmesso negli ultimi giorni dai principali rappresentanti dell’amministrazione Trump ai partner del Vecchio Continente. E mentre accelerano le discussioni tra i leader al di qua dell’Atlantico volte a definire un eventuale dispiegamento sul terreno in Ucraina di soldati con funzioni di peacekeeping, si sviluppa in parallelo la discussione su come il complesso militare-industriale europeo possa davvero realizzare un incremento sostenuto della produzione bellica per fare fronte alle prossime mosse di Mosca, e sorprendentemente, di Washington.

Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo, afferma che “non è sbagliato che gli Stati Uniti dicano che spetta a noi difenderci”. “Non ci possono più essere disparità a livello Nato, dove una gamba è molto più forte dell’altra”, aggiunge Cingolani precisando che tale ragionamento “era valido anche prima del ritorno di Trump”. In effetti se è vero che i Paesi europei spendono di più in difesa rispetto al 2022, anno di inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, i ritmi produttivi non sono ritenuti ancora sufficienti. In un’analisi pubblicata dal Financial Times, si legge infatti che a pesare sui ritardi di Bruxelles ci sono “decenni di sottoinvestimenti e di dipendenza a lungo termine” dagli Stati Uniti. Una situazione che limita la capacità dell’Europa di produrre su scala industriale.

Non stupisce dunque che, in base ai dati ripresi dal quotidiano finanziario e riferiti al 2023, tra i 15 più grandi produttori mondiali della difesa ci siano solo tre aziende europee, BAE Systems, Airbus e Leonardo, e che le prime cinque posizioni siano occupate da industrie statunitensi (Lockheed Martin, RTX, Northrop Grumman, Boeing e General Dynamics). Per aiutare le aziende del Vecchio Continente a crescere e a colmare il divario che le separa dai competitor americani, i dirigenti delle imprese europee hanno individuato diverse soluzioni. Tra queste: ordini a lungo termine da parte dei governi che dovrebbero inoltre impegnarsi ad acquistare dai produttori nazionali e ad investire nelle catene di approvvigionamento, un incremento della collaborazione tra le aziende che potrebbe passare anche da programmi paneuropei e maggiori investimenti in ricerca e sviluppo al fine di incoraggiare l’innovazione.

Morten Brandtzæg, l’amministratore delegato di Nammo, uno dei maggiori produttori di munizioni in Europa, sostiene che sebbene la sua società abbia investito “20 volte di più in attrezzature di produzione” rispetto a prima dello scoppio del conflitto, permane ancora un “enorme divario nella creazione di una capacità sufficiente per supportare l’Ucraina e, allo stesso tempo, per riempire le scorte di munizioni nazionali”. Gli fa eco Guillaume Faury, chief executive officer di Airbus, secondo cui “quello che l’Europa deve fare è innanzitutto unirsi e creare programmi su larga scala, spendere più soldi e acquistare dall’Europa”.

Un altro nodo da sciogliere lungo il cammino del riarmo è l’eccessiva frammentazione dei big del settore, richiamata di recente dal presidente francese Emmanuel Macron. Riferendosi a carri armati e ad altri veicoli militari l’inquilino dell’Eliseo ha ricordato che in Europa esistono “62 differenti piattaforme terrestri” contro le “otto negli Stati Uniti”. Una situazione simile si registra anche nel campo della marina.

Al momento appare impossibile prevedere se Bruxelles sarà in grado di recuperare il tempo perso e tantomeno se riuscirà a rispondere con efficacia alla duplice sfida rappresentata dagli Stati Uniti di Trump e dalla Russia di Putin.

Ben più certa è però la posta in gioco in caso di fallimento che, mai così alta, è ben spiegata da Nico Lange, ex alto funzionario della difesa tedesca, il quale al Wall Street Journal ha affermato che “dopo 10 anni di campanelli di allarme, il prossimo per gli europei potrebbe essere una sirena antiaerea”.

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