Se c'è un miracolato in questa nevroticissima fase della storia politica francese, il suo nome è Jean-Luc Mélenchon. Estremista anti occidentale, portabandiera di tutte le cause perse dell'ultrasinistra chic, antisemita di fatto come il suo vecchio compagno inglese Jeremy Corbyn, il momento magico del fondatore di «France insoumise» sembrava ampiamente trascorso. Dopo lo choc del 7 ottobre, infatti, con le sue prese di posizione in favore degli assassini di Hamas aveva a tal punto passato il segno da mettere inconsapevolmente le basi per una sua débacle elettorale. Dalle urne delle europee, lo scorso 9 giugno, era uscito fortemente ridimensionato, a tutto vantaggio di una sinistra più moderata incarnata dal nuovo leader socialista Raphael Glucksmann.
Ma quella stessa sera, chi salta fuori a togliere d'impaccio Mélenchon? Proprio lui, Emmanuel Macron, l'odiatissimo «presidente dei ricchi». Che, sconfitto nelle urne come sappiamo, annuncia a sorpresa lo scioglimento dell'Assemblea Nazionale e nuove elezioni nel giro di tre sole settimane. Macron spera di attirare dalla sua parte Glucksmann e i gollisti in un fronte contro le estreme, ma viene deluso: Mélenchon, vecchio esperto di psicologia dell'elettore francese di sinistra, gioca la carta della drammatizzazione, rispolvera il lessico datatissimo degli anni Trenta del Novecento e ripropone con successo - nientemeno che il Front Populaire, un'alleanza di sinistre radicali e moderate che nulla hanno in comune tra loro eccetto la volontà di sbarrare la strada ai fascisti.
Un incubo per Macron, un sogno per Marine Le Pen, che non può chiedere di meglio: Francia polarizzata, noi contro loro e a questi «loro» si può attribuire il volto del più estremista degli estremisti rossi, l'uomo del meticciato, il favoreggiatore dell'immigrazione islamica senza limiti, il nemico giurato dell'identità francese tradizionale: Jean-Luc Mélenchon. Poi le cose non vanno esattamente così, e questo proprio a causa del suo profilo troppo estremistico. Il capo di France Insoumise deve non solo rinunciare al ruolo di candidato premier del Fronte, ma, dopo il brillante risultato dei lepenisti nel primo turno del 30 giugno, anche scendere ad accordi con i macroniani. Desistenze obbligate nei collegi uninominali, o lo spettro della destra al governo rischia di materializzarsi per davvero il 7 luglio. I risultati di ieri sera hanno confermato l'efficacia di questa strategia. Abbiamo visto un eccitato Mélenchon atteggiarsi a capo di un fronte di sinistra che in realtà è solo un cartello elettorale destinato a frammentarsi. Dettare condizioni a Macron («Attal deve dimettersi») anche a fronte del fatto che «Abbiamo salvato la Repubblica», pretendere dall'«alto» di una maggioranza assai relativa del Front di imporre all'Eliseo il programma di governo della sinistra («quello e solo quello»). Ma la verità, che avrà bisogno di tempo per palesarsi, è che questo programma comune non reggerà alla prova dei fatti. Non a caso Glucksmann ha già detto che «il Parlamento è diviso e ora bisognerà comportarsi da adulti». Ciò significa per Mélenchon il rischio di subire una beffa suprema. Perché se Macron riuscirà a mettere insieme una maggioranza composta dai suoi, dai gollisti e dagli eletti non estremisti del Front, si capirà che sarà stato capace di usare i voti del cartello della sinistra (France Insoumise inclusa) per poi pescare tra gli eletti coloro che gli servono e lasciare i radicali all'opposizione.
A quel punto, a Mélenchon non resterebbe che tornare, per tentare di far cadere il diabolico président, al suo vecchio amore: la piazza, dove incontrerà i suoi nemici dell'estrema destra che si trasformeranno nei suoi complici.
Del resto, lui e la Le Pen hanno in comune molto più di quanto ammettano: odiano entrambi l'Occidente liberale e gli Stati Uniti, e alla Nato con cui la Francia è da 75 anni alleata preferiscono di gran lunga la Russia di Putin, per non parlare del comune disgusto per la causa dell'Ucraina. L'onda rosso-bruna marcerà divisa per colpire unita.
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