Il Nobel, l'atomica e l'utopia della pace

È agli arsenali atomici, e solo a loro, che dobbiamo la nostra relativa pace dal 1945 a oggi: esistono per non essere usati, nella certezza che ci si provasse non avrebbe il tempo di gioirne

Il Nobel, l'atomica e l'utopia della pace
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C'è qualcosa di fortemente simbolico e immaginiamo di non casuale nell'assegnazione del premio Nobel per la Pace a un'associazione giapponese che si batte per la eliminazione degli arsenali nucleari in tutto il mondo nello stesso giorno in cui si sono incontrati il presidente russo Vladimir Putin e quello iraniano Masoud Pezeshkian. Perché mentre per Nihon Hidankyo il ricordo del tragico destino di Hiroshima e Nagasaki dovrebbe essere monito perpetuo contro l'uso delle atomiche, i leader di Mosca e di Teheran sono accomunati invece (oltre che da vedute molto vicine sulle questioni internazionali, come hanno tenuto ieri a far sapere al mondo intero che comunque già lo sapeva benissimo) da un'attitudine a dir poco disinvolta rispetto all'impiego di ordigni che oggi sono assai più devastanti di quelli che gli americani sganciarono nel 1945 sul Giappone.

Così, se i benintenzionati giapponesi freschi di Nobel si dicono certi che un mondo senza atomiche sarebbe finalmente libero dall'incubo della guerra, Putin e il suo alleato islamico iraniano cosiddetto moderato rappresentano, tutt'al contrario, due regimi che non fanno mistero di voler ricorrere anche a quegli ordigni da Armageddon pur di conseguire i loro disegni: nel caso di Putin, non perdere la faccia

in Ucraina (vincere la guerra ha capito anche lui che se lo può scordare), in quello degli ayatollah cancellare Israele dalla faccia della Terra.

«Voler ricorrere», abbiamo scritto, perché per fortuna tra il minacciare e l'agire c'è di mezzo qualche ostacolo concreto di varia natura. Per Putin, che nonostante tutto è un razionale, la consapevolezza che il ricorso all'atomica - anche solo tentato invano equivarrebbe in automatico alla sua fine politica e non solo a quella. Per i fanatici religiosi di Teheran, il discorso è diverso: l'idea maniacale del martirio è talmente radicata nelle menti degli estremisti sciiti portati al potere nel 1979 dall'ayatollah Khomeini, che l'idea di trasformare l'amata Palestina in un deserto radioattivo li preoccupa molto meno della prospettiva di passare alla Storia come gli estirpatori del cancro sionista. Sterminare dieci milioni di ebrei in un colpo solo così superando anche il tragico primato di Adolf Hitler - li entusiasma, e l'eventualità che dieci o venti milioni di iraniani finiscano «martirizzati» dalle atomiche israeliane lanciate in risposta sul loro Paese (già: anche loro ce le hanno) pare, più che trascurabile, motivo di insuperabile onore.

Oggi è anche la giornata adatta per ricordare che intorno alla questione dell'atomica circolano diverse sciocchezze e una grande, scomoda verità. La principale sciocchezza, che contraddice purtroppo gli assunti e i nobili principii dei Nobel per la Pace 2024, è che sia possibile eliminare dalla faccia della Terra gli arsenali nucleari: non ci vuol molto a capire che, essendo questi la più sicura polizza sulla vita di qualsiasi regime li detenga, oltre che l'asso di bastoni in grado di evitare sconfitte militari e di minacciare a piacimento vicini e lontani, nessuno mai se ne priverà. La seconda sciocchezza (per le altre manca lo spazio) è che, nell'ipotesi dell'irrealtà di un mondo denuclearizzato, comincerà allora un'era di pace. Per millenni gli uomini si sono sterminati senza l'ausilio di Oppenheimer e soci: continueranno a farlo inventando nuove armi o ricorrendo a quelle vecchie.

Da qui discende l'ovvia, ma screditatissima, verità. È agli arsenali atomici, e solo a loro, che dobbiamo la nostra relativa pace dal 1945 a oggi: esistono per non essere usati, nella certezza che ci si provasse non avrebbe il tempo di gioirne.

Sotto quell'ombrello, perfino Enrico Berlinguer l'aveva capito, si vive tranquilli. Chi non ne dispone basti pensare all'Ucraina che se n'è improvvidamente privata trent'anni fa subisce invece le aggressioni del bullo di turno ed è costretto a mendicare aiuto e protezione dall'estero.

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