Sono gli ultimi giorni di dicembre 2016 e Damasco è fredda, forse più del solito. La gente, dopo essersi lasciata alle spalle il Natale, affolla le vie della città sognando l'anno che verrà. Qui, mentre l'Isis cerca di imporre una sola bandiera (quella nera) e un solo credo (quello dell'islam più radicale) tutti festeggiano la nascita di Cristo. Perché qui, in quello che rimane della capitale, non importa in quale religione tu creda. Non importa se sei cristiano o musulmano (sunnita? Sciita? Alawita?). Qui si è prima di tutto siriani.
Allah, Suria, Bashar (Dio, la Siria e Assad): si canta così, in quel 2016, mentre Aleppo viene liberata. Per la popolazione civile è la fine di un incubo: per anni ha vissuto sotto la minaccia degli islamisti, quelli che in Occidente vengono troppo sbrigativamente chiamati ribelli moderati, ma che moderati non sono. Spesso infatti sono legati ad Al Qaeda - che qui preferisce farsi chiamare Al Nusra o Hayat Tahrir al Sham - oppure si sono riciclati dopo aver militato nello Stato islamico. Non vogliono solo abbattere un regime, certamente sanguinario, quello di Assad. Vogliono crearne uno nuovo in nome di Dio. Allah akbar, urlano mentre sgozzano. Allah è grande. E sterminatore. Non c'è più la Suria. Non c'è più Bashar.
"Ora che Aleppo è tornata sotto il nostro controllo - raccontavano i siriani di Damasco in quel dicembre 2016 - la vittoria è di Assad". Avevano ragione, ma solo in parte. Perché la vittoria, ammesso e non concesso che sia stata conseguita, non era solo del dittatore siriano ma anche di Vladimir Putin che, l'anno prima, aveva fornito i caccia e i militari russi (e pure i miliziani della Wagner) per combattere contro i terroristi. In quel lontano 2016 Assad aveva vinto una battaglia credendo che fosse la guerra.
Tutti - pure noi - lo credevamo. I jihadisti si erano rintanati nella roccaforte di Idlib al confine con la Turchia, dove sono stati coccolati (e foraggiati) per anni da Recep Tayyip Erdogan che li ha usati come carne da cannone in Nagorno Karabakh, al fianco dell'Azerbaigian, contro la popolazione armena, e pure un Ucraina. E che ora vengono nuovamente usati per far vacillare Assad e, quindi, Putin.
Perché è così che avviene in quella che, come ha affermato anche papa Francesco, è una terza guerra mondiale a pezzi. Una terza guerra mondiale a pezzi dove ogni scacchiere è collegato all'altro. E dove a volte, per capire ciò che accadrà in Ucraina, bisogna guardare in Medio Oriente. O in Africa. E viceversa.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.